maggio
2005



Andrea Malagamba

IL CONCETTO DI DISTRAZIONE NELLO ZIBALDONE DI LEOPARDI
Data d'immissione:
Maggio 2005

Premessa

La grande ampiezza semantica del termine ‘distrazione’ è alla base di un’attività riflessiva particolarmente estesa e non riconducibile a un piano univoco. Ho cercato, pertanto, di seguirne i diversi livelli, individuando all'interno dello Zibaldone due orientamenti principali, continuamente intrecciati dalla scrittura leopardiana: quello metafisico, strettamente connesso al problema della felicità possibile all’uomo, e quello di stampo cognitivo, legato al tentativo di individuare leggi precise del funzionamento dell'intelletto umano.

Nelle prime pagine del suo diario, Leopardi separa il dominio della distrazione da quello dell’auto-inganno rispetto alla questione della felicità. Il discorso leopardiano mette a fuoco alcune vie di fuga rispetto alle persuasioni paralizzanti della ragione e, allo stesso tempo, stabilisce quei caratteri specifici della distrazione - in primo luogo il suo attivarsi involontariamente nell'individuo -, che ne fanno un fenomeno interno alla dimenticanza ma non del tutto coincidente con essa.

Tra il gennaio e il giugno del 1820, l’analisi delle forme di dimenticanza si innesta sul crescente interesse di Leopardi per il problema del passaggio dall’antico al moderno, originando un doppio movimento del pensiero: da un lato, la riflessione sul senso della storia relativamente alla felicità umana porta Leopardi a distinguere la distrazione degli antichi da quella dei moderni, dall’altro, la delimitazione del concetto di distrazione fa di questa una linea di demarcazione piuttosto precisa tra natura e civiltà.

Mentre in queste prime considerazioni Leopardi non tematizza esplicitamente la distrazione, così che il suo funzionamento deve essere ricostruito seguendo indicazioni fondamentalmente indirette, a partire dal luglio del 1821 il discorso sulla distrazione rientra in quello per i meccanismi dell’attenzione e della memoria. Pur non abbandonando mai la questione della felicità possibile all’uomo, Leopardi ragiona fittamente sulla specificità di alcune dinamiche conoscitive, individuando la relazione strettissima tra distrazione e attenzione involontaria nei processi di apprendimento del fanciullo.

1. Distrazione, persuasione, dimenticanza.

Leopardi riflette sulla distrazione sin dalle prime pagine del suo diario, non ancora datate ma presumibilmente databili all’inizio del 1819. Indicata cursoriamente per delimitare con precisione il territorio dell’auto-inganno, la distrazione viene implicitamente svincolata da ogni forma di gradualità necessaria alla persuasione:

Il cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per farci compagnia da noi stessi come comunemente si dice, nè per distrarci puramente, ma per mostrare di dare a intendere a noi stessi di non temere. La quale osservazione potrebbe forse applicarsi a molte cose, e dare origine a parecchi pensieri. E già è manifesto che all’aspetto del male noi cerchiamo d’ingannarci e di credere che non sia tale, o minore che non è, e però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia persuaso, e per ultimo grado, per persuaderlo a noi stessi, fingiamo d’esserne già persuasi, operando e discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che accade nel caso detto di sopra.[Zibaldone : 43, corsivo mio]

L’inganno tranquillizzante prodotto dal canto non deriva semplicemente dal sentirsi cantare, che darebbe vita soltanto a un inganno sensorio per il quale l’individuo fingerebbe di non essere solo, ma da un graduale convincimento, compiuto mediante la riflessione sul sentirsi cantare stesso, che culmina nella persuasione che il canto sia possibile solo se non si prova paura. Detto altrimenti, l’inganno si configura come un graduale ma radicale rovesciamento dei rapporti di causalità tra canto e paura: non si canta perché si ha paura, bensì è possibile cantare solo quando si è īgià persuasiŠ di non temere.

L’uomo proccura di persuadersi ch’ei non teme, ond'ei possa dedurre che non v'è ragion sufficiente o necessaria di timore. [Zibaldone : 3527]

Il processo di auto-inganno che l’uomo attiva per sfuggire alla paura sembra implicare un dialogo mentale con se stessi caratterizzato da un altissimo grado di astrazione. Tale gradualità di riflessione non è rintracciabile nelle dinamiche della distrazione: questa agisce nell’individuo «puramente», vale a dire irriflessivamente e desultoriamente, come appare dall’analisi del primo nucleo di pensieri zibaldoniani nel quale vengono delineati, sebbene in modo non del tutto esplicito, il ruolo della distrazione e alcune leggi del suo funzionamento.

Nel gennaio del 1820, Leopardi descrive tre maniere diverse di guardare il mondo:

L’una e la più beata, di quelli per i quali esse hanno anche più spirito che corpo, e voglio dire degli uomini di genio e sensibili, ai quali non c’è cosa che non parli all’immaginazione o al cuore. L’altra e la più comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza avere molto spirito, che senza essere sublimati da nessuna cosa, trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono, e sono stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano. Questa è la maniera naturale, e la più durevolmente felice La terza e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno nè spirito nè corpo, ma son tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi, e degli uomini per lo più di sentimento che dopo l’esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita.[Zibaldone : 102-103, corsivo mio]

Leopardi non ammette alcuna possibilità di mediazione graduale né di compromesso tra le tre visioni delle cose: la seconda e più diffusa coincide con una condizione stabile nel tempo e apparentemente felice, caratterizzata da una totale uniformità che non prevede sconfinamenti nelle altre due. Tra la prima e la terza sussiste un particolare rapporto di ‘propedeuticità’: solo l’animo entusiasta, dopo una ripetuta esperienza di disillusione, arriva a concepire īdi saltoŠ la nullità delle cose, senza prima sperimentarne la īrealtàŠ. Queste due condizioni coincidono con due distinte persuasioni, vale a dire con due convinzioni introiettate a tal punto da essere vissute per vere; esse sono, pertanto, due condizioni di verità (non solo di realtà) che si succedono nell’animo umano. Il riconoscimento delle illusioni come tali passa necessariamente per l’acquisizione di una nuova verità che, coincidendo con la chiara visione della nullità delle cose, invalida quella precedente, ne svela il carattere illusorio.

Il rapporto che Leopardi pone tra illusione e ragione può essere compreso come una forma particolare di rapporto dialettico. La ragione mostra l’inesistenza di un fondamento naturale dell’illusione: a sua volta, l’illusione realizza la sua natura di illusione (cioè assume vera «figura» di illusione, si fa pura immagine) in quanto la ragione ne ha dissolto il fondamento di realtà. [Colaiacomo 1995 : 263]

La ragione determina il passaggio brusco e irreversibile dall’entusiasmo alla disillusione, e la sua azione costante nella mente dell’individuo porterebbe a follia certa se non fosse interrotta dalla distrazione:

Perchè chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla veriss. e certiss. delle cose, in maniera che la successione e la varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutam. e per ciò solo, giacchè volendosi governare secondo questo incontrastab. principio ognuno vede quali sarebbero le sue operaz. E pure è certiss. che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttam. alla ragione. [Zibaldone : 104]

La dicotomia ragione - distrazione, istituita da Leopardi in questo passo, è l’assunto costante delle pagine zibaldoniane sulla distrazione, e sembra essere modellata su una delle più complesse opposizioni individuabili nel pensiero leopardiano, quella tra morte e vita. La ragione è fonte di una saviezza paradossale in quanto, nell’istante in cui essa aderisce completamente alla verità, si traduce in un rovello del pensiero che immobilizza l’individuo, in una persuasione che determina un’inazione simile alla morte.

Senza illusioni di cui l’uomo sia persuaso, non c’è vita nè azione, giacchè l’uomo non opera senza persuasione, e se la persuasione non è illusoria, ma viene dalla ragione, l’uomo non opera, perchè la ragione non lo persuade ad operare, anzi ne lo distoglie, e lo getta nell’indifferenza.[Zibaldone : 362-363]

La follia e l’indifferenza causate dalla persuasione dell’uniformità del vuoto sono gli esiti mortiferi dell’ottica disincantata della ragione. Il processo di fissazione delle verità acquisite per via di ragione conosce due soli antidoti: la persuasione illusoria e la distrazione. Esse, pur agendo per un fine comune, sono modalità del pensiero che Leopardi distingue in modo preciso.

Le persuasioni vitali sono necessariamente illusorie nell’ottica di chi è pervenuto alla conoscenza del «nulla verissimo e certissimo delle cose»: sono il risultato di processi di auto-inganno, attivati volontariamente, come si è detto, ma agiti dall’individuo in modo del tutto inconsapevole una volta fissatisi in una persuasione. L’auto-inganno è salto all’indietro, a occhi bendati, capace di ricondurre l’uomo, per un tempo più o meno duraturo, all’agire vitalistico dell’età felice. Le due condizioni, illusione e disincanto, non sono più mediabili, ma solo intercambiabili a seconda della verità, fittizia o meno, radicata nella persuasione individuale.

Anche la distrazione è salto, ma diversamente dalla persuasione, essa non restituisce all’uomo disincantato, neanche per breve tempo, l’entusiasmo delle illusioni, ma soltanto la possibilità di accedere alla condizione di coloro che vedono nelle cose una «realtà». La distrazione è ponte tra due ottiche non altrimenti mediabili nell’uomo: la verità del nulla e la realtà delle cose. Come tale, essa concede all'uomo prigioniero di una persuasione paralizzante, momentanee illusioni di realtà, non sostituzioni fittizie di una ‘verità’ con un’altra.

La distrazione è un inganno temporaneo e irriflesso - in quanto improvvisa ‘dimenticanza’ della verità - e involontario: sono la «successione» e la «varietà» degli «oggetti» e dei «casi&rquo, non l’individuo, ad avere la forza di distrarre. Se questo è vero, coloro che vivono costantemente nella convinzione della realtà delle cose, vivono, agli occhi dell’individuo disilluso, in un costante inganno inconsapevole, sono per lo più uomini distratti, o meglio, come si dirà tra breve, occupati.

Prima di stabilire con maggior precisione la natura delle dinamiche distrattive, Leopardi continua a delimitarne il territorio e le condizioni di possibilità di attivazione. Esiste un dominio dell'esistenza che non ammette né distrazioni né dimenticanze, quello afferente alla legge naturale:

Una gran differenza tra la legge di natura e le leggi civili, è questa che la legge civile o umana si può dimenticare o per distrazione o per altro, e infrangerla senza leder la coscienza, (come s’io mangio carne non ricordandomi che sia giorno di magro, o anche ricordandomene, ma per distrazione) laddove la legge naturale non ammette distrazione, e non può accadere che uno la infranga non credendo, perch’ella ci sta sempre nel cuore come un istinto che ci avverte continuamente, e il quale non è soggetto a dimenticanze.[Zibaldone : 118-119, corsivo mio]

La distrazione sembra entrare in corto circuito con la ‘dimenticanza’, alla quale era stata precedentemente associata: la legge civile può essere ricordata e, al tempo stesso, elusa «per distrazione». Ciò è possibile, avverte implicitamente Leopardi, perché la distrazione interviene nella zona dell’intelletto, qui chiamata «coscienza», delegata a connettere memoria (ricordo che è giorno di magro) e conoscenza della legge civile (so che nel giorno di magro non si mangia carne), facendo saltare tale connessione.

La ‘distrazione’ è un fenomeno di discontinuità della coscienza, non un difetto della memoria, e solo in quanto tale radicalmente opposto alla continuità dell’istinto-natura. ‘Dimenticanza’ è il nome collettivo che Leopardi assegna a fenomeni formalmente assimilabili per il loro effetto sulla memoria, ma distinti per ciò che concerne il loro dominio e la loro origine nell’individuo. I caratteri di desultorietà e di attivazione involontaria, perciò, delimitano con precisione il concetto di distrazione non solo rispetto a quello di ‘persuasione’, ma anche rispetto a quello di ‘dimenticanza’. Quest’ultima può essere prodotta anche artificialmente, come Leopardi mostra nei pensieri relativi agli effetti dell’ubriachezza:

L’ubbriachezza è madre dell’allegrezza, così il vigore. Che segno è questo? Perchè l’ubbriachezza non cagiona la malinconia? Prima perchè questa deriva dal vero e non dal falso, e l’ubbriachezza cagiona la dimenticanza del vero, dalla quale sola può nascere l’allegrezza. Secondo, che gli uomini nello stato di natura, cioè di vigore molto maggiore del presente, eran fatti per p. esser felici, e abbandonarsi alle illusioni, e vederle e sentirle come cose vive e corporee e presenti.[Zibaldone: 109]

La dimenticanza causata dall’ubriachezza è parzialmente assimilabile ai meccanismi dell’auto-inganno, in quanto consente di eludere la consapevolezza del vero mediante un processo graduale volontariamente avviato. La distrazione, al contrario, è discontinuità della coscienza proprio nel momento della sua attivazione, e in quanto tale si presenta come una forma precisa di dimenticanza, non definibile soltanto a partire dai suoi effetti sulla memoria.

Non è difficile individuare in questo primo nucleo di pensieri zibaldoniani sulla distrazione il crescente interesse di Leopardi per il problema della felicità nel passaggio dall’antico al moderno.

L’appunto sugli effetti dell’ubriachezza è completamente interno a questo tipo di riflessione. Leopardi assegna un ordine consequenziale a due considerazioni apparentemente poco coese, sebbene formalmente unite dalla proposizione incipitaria: ubriachezza e vigore sono fonte di allegria; ma si tratta di allegrie diverse, la prima legata a un vuoto di verità, la seconda alla pienezza della vita illusa. L'unità sostanziale dell'appunto e il senso della diversità della due ‘allegrie’ risiede nella domanda «che segno è questo?», quasi nascosta dalla riflessione sugli effetti dell’ebbrezza. Le due allegrie, la considerazione della loro diversità, sono il «segno» dello scarto tra due epoche diverse della storia del genere umano, o più precisamente, tra preistoria mitica e storia dell'uomo.

Il lungo appunto del gennaio del 1820 sui tre modi di guardare il mondo può essere ragionevolmente letto in questa chiave storico-temporale. La distinzione tra la condizione felice e le altre due è interpretabile come improvvisa e insanabile divaricazione storica tra ‘realtà’ e ‘verità’: esse sono unite e indistinguibili nella prima, mitica età dell’uomo, irrimediabilmente e inspiegabilmente separate nelle epoche successive. Se guardate all’interno di tale dinamica storica, la distrazione e la dimenticanza, la loro necessità per vivere, sono il «segno» della degenerazione del genere umano, del suo inarrestabile allontanamento dalla condizione felice dello stato di natura.

2. Distrazioni, piaceri, occupazioni.

La riflessione sul senso della storia relativamente alla felicità umana porta Leopardi da un lato a fare della distrazione una linea di demarcazione precisa tra natura e civiltà, dall’altro, ad attribuire un significato e un funzionamento precisi alla distrazione solo in relazione alla modernità: il suo dominio è quello della vita disillusa, il suo ruolo quello di renderla tollerabile. L’analisi delle dinamiche distrattive non va intesa, dunque, come riflessione estrinseca ad una distinzione - quella tra antico e moderno - già concettualizzata, ma come un suo elemento costitutivo.

Leopardi individua nella distrazione un rimedio alla malinconia già nella lettera al marchese Broglio del 13 agosto 1819, ma solo a partire del luglio del 1820 Leopardi tematizza il rapporto tra distrazione e felicità nel passaggio dal mito alla storia, all’interno di una vera e propria ‘teoria del piacere’. La distrazione consente all’individuo di eludere temporaneamente la dolorosa dinamica del piacere, consistente, com'è noto, nel sentimento dell’irriducibile distanza tra il desiderio del piacere assoluto, senza limiti di durata e di estensione, e il piacere limitato, l’unico possibile all’uomo. Il desiderio di piacere infinito è una tendenza ineliminabile dell’uomo, in quanto diretta conseguenza dell’amor proprio, vale a dire dell’istintivo, inestinguibile amore che l’individuo prova verso se stesso:

Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed eguale alla misura dell’amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. [Zibaldone: 646-647]

L’amor proprio è il perno concettuale dell’intera antropologia leopardiana, il suo unico assioma costitutivo, in quanto fondamento istintivo della vita stessa e sua condizione di possibilità. Esso, dunque, non ammette distrazioni, come Leopardi suggerisce implicitamente nel già citato passo sulla legge naturale [Zibaldone: 118-119]: questa non può essere elusa senza che l'individuo se ne accorga, in quanto è «come un istinto che ci avverte continuamente».

Ma se la distrazione non è ammissibile all’interno dell’istinto, in quale punto della dinamica del piacere descritta da Leopardi, essa può intervenire? E a quali condizioni? Stando a quanto detto, la distrazione non può agire direttamente sull’amor proprio, non può sospendere involontariamente l’inclinazione innata dell’uomo ad amarsi e a desiderare per sé il piacere illimitato; essa può, semmai, ostacolare il suo continuo ‘avvertirci’, vale a dire il suo manifestarsi nell’animo sotto forma di desiderio presente, attuale.

La qualità temporale dell'amor proprio è la permanenza, quella del desiderio è la successione ininterrotta:

Sempre che il vivente si accorge dell’esistenza, e tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso, e sempre attualmente, cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in ciascun istante egli ama attualmente se stesso, egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale, ma posto sempre in atto, tanto più vivo quanto ec. come sopra. [Zibaldone: 3846-3847, corsivo mio]

L’amor proprio è una potenzialità inesauribile che si manifesta continuamente nell’individuo sotto forma di atti di desiderio. La distrazione non può agire direttamente su tale istinto - che Leopardi ci presenta nello Zibaldone come un sostrato naturale non direttamente indagabile né modificabile dall'individuo - ma soltanto sulle sue ‘manifestazioni’, vale a dire sui desideri in atto e sugli oggetti che li destano.

Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come un cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno.[Zibaldone : 165-166]

L’amor proprio si manifesta sempre all’individuo come affioramento di un desiderio particolare. La prima distrazione dal desiderio è il piacere stesso, ossia la soddisfazione del desiderio determinato con il quale la dinamica del desiderio ha inizio. Ma l’ottenimento del piacere particolare non coincide con la cessazione del desiderio, a causa della diversa temporalità che attiene loro. Il piacere che l’uomo ottiene, non può durare in eterno, e dunque non è che una distrazione temporanea. L’amor proprio, invece, «ci avverte continuamente», vale a dire emerge nell’io sotto forma di successione continua di volizioni.

Il primo ‘avvertimento’ dell’amor proprio è il senso di vuoto causato dall’incalzare del desiderio, che investe immediatamente l’individuo una volta ottenuto il piacere. Il vuoto indicato dall’amor proprio ricorda da vicino «la vanità delle cure umane e dei desideri» del passo del 1820 [Zibaldone : 104], rimandando alla differenza tra persuasione e distrazione in esso contenuta.

La funzione che Leopardi assegna alla distrazione nella dialettica desiderio-piacere non coincide mai con una forma di persuasione: la distrazione non opera al fine di eludere la consapevolezza, acquisita per esperienza, dello scarto insanibile tra piacere desiderato e piacere ottenibile e del senso di nulla che ne deriva, ma, più efficacemente, mira ad ostacolare, deviandola temporaneamente, la successione continua dei desideri che si presentano all'animo.

In che modo la distrazione può interrompere la successione continua dei desideri? Nella sua riflessione sul piacere Leopardi prevede due forme di distrazione diverse dalla soddisfazione del desiderio particolare: l’occupazione e la meraviglia. Pur coincidendo entrambe con l’idea del piacere, in quanto sospensive del vuoto aperto dal desiderio, esse funzionano in modo profondamente diverso.

La meraviglia riempie il tempo interiore che intercorre tra l’ottenimento di un piacere e l’avvertimento del vuoto determinato dall’incalzare del desiderio successivo, configurandosi come «riposo dal desiderio», sua temporanea cessazione. Essa interrompe il passaggio dall’istinto alla volizione, dall’amor proprio al desiderio, spezzando la continuità della successione degli atti di desiderio, al fine di evitare il senso di vuoto che segue alla soddisfazione di ognuno di essi.

Il meraviglioso, lo straordinario è piacevole, quantunque la sua qualità particolare non appartenga a nessuna classe delle cose piacevoli. L’anima prova sempre piacere quando è piena (purchè non sia di dolore) e la distrazione viva ed intera è un piacere rispetto a lei assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere, perchè una tal distrazione è riposo dal desiderio. E come è piacevole lo stupore cagionato dall’oppio così quello cagionato dalla meraviglia, dalla novità, e dalla singolarità. [Zibaldone : 173]

Anche l’occupazione è una forma di riempimento del vuoto successivo all’ottenimento del piacere determinato, ma diversamente dalla meraviglia, essa non arresta temporaneamente la dinamica del desiderio ma tenta di adeguarvisi: l’occupazione rincorre il desiderio, è il tentativo di adeguare il ritmo della successione delle azioni che procurano piacere alla velocità e alla continuità del nascere dei desideri.

La vita continuamente occupata è la più felice, quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L’animo occupato è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro il provvedere ai suoi bisogni ordinari ec. ec. ec.) giacchè li considera allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l’anima desidera), e conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri sempre maggiori, e non ha campo d'affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza di quei piccoli fini, e i piccoli disegni sulle occupazioni avvenire o sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato, bastano a riempirlo.[Zibaldone : 172-173, corsivo mio]

In entrambi i casi, la distrazione è un antidoto efficace all’inclinazione naturale dell’uomo verso il piacere solo a patto che essa si sostituisca ininterrottamente alla successione continua degli atti di desiderio. Essa si presenta come una forma di discontinuità del desiderio tanto più efficace quanto più iterata. La distrazione non si sostituisce permanentemente alla continuità dell’istinto, poiché essa, diversamente dalla persuasione, agisce sul presente del desiderio, non sulla conoscenza di sé determinata dalla memoria di un ‘vissuto’. La distrazione è un fenomeno sempre al ‘presente’, che non può stratificarsi nell’io fino a soppiantare l'amor proprio senza che questo costituisca una negazione della vita stessa.

Occupazione e meraviglia sono a loro volta storicamente determinate. L'occupazione che appartiene alla modernità consiste in una vita fittamente riempita di attività īmaterialiŠ che, per quanto varie, non fanno altro che imitare, come si è detto, la struttura della successione dei desideri, rischiando costantemente di far ripiombare il soggetto che le compie nel vuoto causato dalla loro cessazione.

L’occupazione della società come quella che offre la società francese, riempie veramente la vita, la riempie dico materialmente, ma non lascia così poco vuoto nell’animo come la occupazione destinata a provvedere ai propri bisogni, ch'era quella dell'uomo primitivo. E la sera l’uomo che ha passata la giornata tutta intera nel mondo il più vivo, vario, e pieno, e ne’ divertimenti anche meno noiosi, e che si trova anche senza cure e dispiaceri, ripensando alla giornata passata, e considerando la futura, non si trova di gran lunga così contento e pieno, come colui che considera i bisogni ai quali ha provveduto, e fa i suoi disegni sopra quelli a’ quali provvederà l'indomani.[Zibaldone : 248]

Il passo rivela il carattere mentale delle attività che l’uomo svolge per provvedere ai bisogni materiali, svincolando il concetto di «occupazione» dal puro agire. Il pensiero delle azioni già compiute occupa pienamente l’animo dell’uomo antico perché legato a un bisogno materiale che anticipa costantemente il vuoto aperto dal desiderio, opponendogli una finalità che implica strutturalmente la ripetizione. L’occupazione dell’uomo incivilito, al contrario, coincide per lo più con un ‘divertimento’, ossia con azioni presenti il cui ricordo non si traduce mai nella sicurezza della loro iterabilità.

Le occupazioni che appartengono all’uomo incivilito sono, dunque, forme degradate di distrazione, consistenti in un vuoto di verità e di piacere temporaneamente riempito di occupazioni materiali che restituiscono all’uomo il senso della «realtà». Pur essendo salvifica e vitale, in quanto sospende la persuasione della nullità delle cose e il vuoto aperto dal continuo desiderare, la distrazione che l’uomo incivilito ottiene dalla vita occupata, non può essere felice come quella degli antichi, poiché nell’uomo antico l'occupazione e la meraviglia erano dimensioni totalizzanti, che occupavano pienamente il campo mentale; la prima in quanto interna alla dimensione dei bisogni materiali, la seconda in quanto costitutiva della stessa psicologia antica.

Notate che la natura aveva voluto che la meraviglia 1. fosse cosa ordinarissima all’uomo, 2. fosse spessiss. intera, cioè capace di riempir tutta l’anima. Così accade ne’ fanciulli, e accadeva ne’ primitivi, e ora negli ignoranti, ma non può accadere senza l’ignoranza, e l’ignoranza d’oggi non può mai esser come quella dell’uomo che non vive in società, perchè vivendo in società, l’esperienza de’ passati e de’ presenti l’istruisce, più o meno, ma sempre l’istruisce, e la novità diventa rara. [Zibaldone : 173-174, corsivo mio]

Gli antichi erano ordinariamente meravigliati e entusiasti del mondo, persuasi della verità di ciò che la ragione moderna giudica illusioni, e il loro pensiero era costantemente occupato dalla necessità di provvedere ai bisogni materiali. Nell’ottica dall'antico, dunque, l'uomo primitivo non può considerare se stesso ‘distratto’, poiché, a rigor di termini, non ha bisogno di distrazioni che sostituiscano la realtà alla verità, il piacere temporaneo alla felicità. Come si è detto, esse sono tutt’uno nello stato naturale, nel quale i concetti di distrazione e di persuasione illusoria coincidono perfettamente con l’azione vitale.

Se indagata in tale prospettiva storica che la mostra come temporanea ma necessaria cancellazione della consapevolezza del vero e del dolore interno al desiderio, la distrazione si rivela un concetto inerente esclusivamente alla modernità, e anche se riferita agli antichi, come una categoria appartenente all'ottica del moderno e a alle dinamiche mentali dell'uomo incivilito.

3. Distrazione, attenzione, e ancora felicità.

La distinzione precisa tra due tipi di distrazione, il primo di natura prevalentemente mentale, il secondo causato dal numero elevato di occupazioni materiali, costituisce una delle più precise demarcazioni leopardiane non solo tra l’antico e il moderno, ma anche tra le vita del fanciullo e quella dell’uomo adulto, e rappresenta un importante tassello dell’ipotesi di identità, più volte sostenuta nello Zibaldone, tra infanzia del mondo e infanzia dell’uomo.

Leopardi ragiona sulla distrazione dei fanciulli per guardare più da vicino la meraviglia che attribuisce agli antichi, per capirne il funzionamento e per darle una fondazione empirica. Come gli antichi, i fanciulli sono dotati di un’immaginazione feconda, che li rende individui soggetti a distrazioni, in quanto continuamente sorpresi dalla novità di ciò che li circonda. Come negli antichi, la «varietà degli oggetti e dei casi» nella quale Leopardi individua la causa esterna della distrazione, agisce su di loro perché il sapere non ha ancora soppiantato definitivamente l’ignoranza. Come per gli antichi, la distrazione ha la funzione di preservarli dall’infelicità.

La volontà di comprendere la natura della distrazione infantile, porta Leopardi a concentrare il suo ragionamento sui meccanismi di acquisizione delle conoscenze. Mentre nelle prime pagine dello Zibaldone il funzionamento delle dinamiche distrattive è ricostruibile sommariamente per via deduttiva a partire da indicazioni indirettte, nelle riflessioni leopardiane su assuefazione e attenzione il concetto di distrazione perviene al suo preciso statuto cognitivo.

Leopardi individua nell’assuefazione il principio che regola il funzionamento dell'intelletto umano. Essa permette di trasformare le disposizioni individuali in facoltà e capacità: la disposizione è una pura possibilità - derivante dalla conformità naturale dell’organo al suo scopo - di acquisire determinate facoltà, possibilità che la contingenza dei processi assuefattivi può realizzare o meno.

L’assuefazione opera nei processi di apprendimento del bambino mediante l’attenzione, alla quale Leopardi assegna il compito di fondare e di sviluppare nell’individuo la capacità di riflettere sugli stimoli percettivi che provengono dal mondo esterno, e di depositarli in memoria.

La facilità, anzi quasi la facoltà di attendere che tanto è necessaria all’assuefazione, o la facilita, l’abbrevia, e la produce, anch’essa però si accresce e perfeziona, e quasi nasce mediante l’assuefazione. [Zibaldone : 1378]

Negli articoli esplicativi che Soave appose al Saggio sull’intelletto umano di John Locke, vengono analizzate con cura le leggi che regolano attenzione e distrazione. Secondo Soave, esiste nella mente umana una corrente perpetua di idee che si succedono senza soluzione di continuità; la capacità di dirigerle ordinatamente e volontariamente è l’attenzione, che si acquisisce, come ogni facoltà umana, attraverso un lungo esercizio. La distrazione è concepita da Soave esclusivamente come un difetto dell’attenzione volontaria, ossia come temporanea sospensione della capacità di concentrarsi sui propri pensieri. Spiegando la natura stravagante delle immagini oniriche, Saove afferma che esse dipendono direttamente dall’assenza di un’attenzione che orienti la successione delle idee:

Non essendo l’attenzione deliberatamente diretta, ella è rapita tumultiariamente or dall’una or dall’altra idea, e si formano quindi successioni di idee mostruosissime. Ciò tanto è vero che ogni qual volta l’attenzione non è diretta dall’anima avvertitamente, noi proviamo le stesse stravaganze anche mentre siam desti; e sogniamo per così dire con gli occhi aperti. Quante volte in quei momenti, che chiamiamo di distrazione, non ci troviamo in mezzo a idee disparatissime, senza saper nemmeno talvolta trovarne il filo, o tornando indietro scoprir le tracce per cui vi siamo arrivati? [Soave 1801a : 150]

Nelle pagine di Soave, la distrazione è descritta come un fenomeno autogenerantesi dall'io, che non prevede la presenza di un mondo esterno: essa è tout-court un perdersi nei propri pensieri. Il suo statuto non è spiegato, dunque, se non per via negativa, come insufficienza dell'attenzione.

In una prima fase della sua meditazione sui processi cognitivi, Leopardi, sulla scia di Soave (e dunque indirettamente di Locke), concepisce l’attenzione come capacità di rivolgere l’intelletto agli aspetti minuti del reale in modo volontario e selettivo, e modella il rapporto tra attenzione e distrazione sull’opposizione concettuale volontarietà-involontarietà. Per ‘attenzione’ Leopardi intende la capacità di concentrarsi acquisita per abitudine ed esercizio, rispetto alla quale, la distrazione è concepita come un negativo perfetto, una sua involontaria interruzione. Gli individui più frequentemente distratti sono i bambini, dotati di un'immaginazione feconda:

E perciò come sono facili a fissarsi in un’idea, così anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio, di qualsivoglia occupaz. onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni allo studio non solo pel poco intelletto, ma perchè son pieni di distrazioni. Giacchè la loro fantasia ha gran facilità di staccarsi subito da una un oggetto p. attaccarsi a un altro.[Zibaldone : 211-212]

L’occupazione dei bambini, come quella degli antichi, è di natura mentale (discorso, studio) e consiste in ciò a cui il bambino tenta di porre volontariamente attenzione. L’occupazione rischia continuamente di essere interrotta da distrazioni, qui concepite come forme di dis-attenzione, vale a dire di temporanea sospensione - completamente interna al movimento dei pensieri del fanciullo - della capacità di attendere.

Sostenere che la distrazione è un fenomeno interno all’occupazione mentale, significa istituire consapevolmente una differenza concettuale tra i due termini, che indica da un lato l’intento leopardiano di fondare il concetto di distrazione sull’esatta conoscenza dei processi mentali che ne sono all’origine, dall’altro, la consapevolezza che delineare con precisione tali processi comporta il temporaneo slittamento del discorso dal piano metafisico della felicità possibile a quello di stampo cognitivo: la distrazione non è vista, in questo appunto, come strumento di conservazione della felicità, ma innanzi tutto come un ostacolo ai processi di apprendimento, perfettamente in linea con le riflessioni di Soave:

Io amerei moltissimo di trovare un rimedio capace di prevenire le distrazioni a cui gli animi nostri sono soggetti. [...] Quanto a me io non ho finora scoperto altro mezzo di fissare la mente ad una cosa, che l’avvezzarvela con tutti gli sforzi possibili. Se osservasi la condotta dei Fanciulli, si vede, che anche quando più stanno in guardia, si lascian rapire da mille pensieri frivoli che gli assediano da ogni parte.[Soave 1801b : 86-87]

La metafora dell’assedio dei pensieri che distraggono il fanciullo dalle sue operazioni, mette a fuoco la connotazione negativa del concetto di distrazione all’interno di una prospettiva pedagogica. L’appunto zibaldoniano del 20 agosto [Zibaldone : 211-212] non devia da quest’orbita teorica: Leopardi studia le leggi di formazione e di funzionamento dell’intelletto umano, rispetto alle quali la distrazione è evidentemente un impedimento.

Vedere nella distrazione un ostacolo rispetto ai processi di apprendimento, e sottolinearne contemporaneamente il ruolo centrale nella conservazione della felicità, non costituisce una contraddizione interna al pensiero leopardiano. La descrizione dei progressi dell’intelletto non mai è svincolata dalla convinzione, solo momentaneamente disattivata, che lo sviluppo della facoltà di riflessione (acquisita per assuefazione e per attenzione) sia direttamente contraria alla felicità. Ciò significa che lo spostamento d'ottica non è mai identificabile con una sovversione gerarchica: i due livelli del discorso procedono parallelamente, e l’assunzione di un'ottica di stampo cognitivo sarà presto resa nuovamente funzionale al problema della felicità.

Nel settembre del 1821, riflettendo sulla natura degli stimoli esterni, Leopardi individua due differenti tipi di attenzione, responsabili a loro volta di due diverse forme di memoria:

Non v’è memoria senza attenzione. [...] Ma vi sono due specie di attenzioni. Una volontaria, ed una involontaria; o piuttosto una spirituale, un’altra materiale. Della prima non si diventa capaci se non coll’assuefazione (e quindi facoltà) di attendere. E perciò gli uomini riflessivi e generalmente gl’ingegni o grandi, o applicati, hanno ordinariamente buona memoria, e si distinguono assai dal comune degli uomini nella facoltà di ricordarsi anche delle minuzie, perchè sono assuefatti ad attendere. Della seconda specie sono quelle attenzioni che derivano da forza e vivacità delle sensazioni, le quali colla loro impressione costringono l’anima ad un’attenzione in certo modo materiale. [Zibaldone : 1733-1734]

Accanto all’attenzione volontaria, derivante dall’abitudine e dall’esercizio, esiste un’attenzione di tipo «materiale», che si presenta come irruzione di un elemento esterno nel tessuto delle assuefazioni. Tale elemento si impone violentemente ai sensi, costringendo l’individuo a filtrarlo e a registrarlo.

La differenza tra i due tipi di attenzione è ormai un caposaldo della moderna psicolologia cognitiva. Già nel funzionalismo di James la distinzione è netta: nel paragrafo relativo alle varietà delle attenzioni, lo psicologo inglese descrive precisamente il fenomeno dell’attenzione involontaria, collocandone le ragioni a metà tra la suscettibilità del soggetto percipiente e la natura dello stimolo esterno.

In passive immediate sensorial attention the stimulus is a sense-impression, either very intense, voluminous, or sudden [...] or else it is an instinctive stimulus, a perception which, by reason of its nature rather than its mere force, appeals to someone of our congenital impulses and has directly exciting qualities. [James 1890 : 416-417]

Lo stesso Soave, nel suo commento a Locke, contemplava la possibilità di un'attenzione «fortuita», ma non individuava alcun nesso concettuale tra essa e la distrazione, né stabiliva quale tipo di processo di memorizzazione essa avviasse.

L’esperienza mi dichiara che l’attenzion mia è qualche volta rapita successivamente dalla forza delle impressioni, senza pur quasi che io me ne avvegga, che altre volte la fisso io medesimo deliberatamente su d’una impressione piuttosto che sovra un’altra. [Soave 1801c : 64]

Leopardi assimila l’insegnamento di Soave, indirettamente lockiano, e ne valuta le implicazioni concettuali all’interno delle sue riflessioni sui processi conoscitivi, precisando, innanzi tutto, il rapporto tra i due tipi di attenzione (volontaria e materiale) e la memoria.

Le due attenzioni determinano due forme di memoria distinte. L’esercizio attentivo volontario è un abito che, una volta acquisito, incrementa se stesso per via della sua applicabilità universale ed è alla base di una capacità di memorizzazione che si perfeziona nel tempo, consentendo all’individuo di acquisire sempre nuove capacità. Diversamente, l’attenzione involontaria determina una memoria puntiforme che cresce come sommatoria di ricordi di specifiche sensazioni.

La diversità delle due forme di memoria coincide con quella dei differenti processi di memorizzazione ai quali l'attenzione dà luogo. L’attenzione agisce sulla memoria mediante due principi ben precisamente individuabili nello Zibaldone, ‘selezione’ e ‘ripetizione’, entrambi presenti, sebbene in misura diversa, sia nell’attenzione materiale (o involontaria) sia nella spirituale (o volontaria) [Malagamba 2003 : 771]. La memoria è un’assuefazione dell'intelletto a una sensazione selezionata e ripetuta dall'attenzione, o mediante un esercizio volontario e costante (Leopardi usa l’esempio dell’imparare un testo a memoria), o involontariamente, in virtù di uno stato attentivo conseguente alla forza della sensazione che colpisce la mente di un individuo. Nell’attenzione volontaria, selezione e ripetizione costituiscono due fasi successive dell'apprendimento, mentre nell'attenzione materiale esse sono completamente simultanee.

L’attenzione raddoppia o triplica la sensazione, in modo che quella sensazione alla quale noi non abbiamo atteso, l’abbiamo provata una volta sola, e perciò non vi ci siamo potuti assuefare, cioè porla nella memoria; ma quella a cui abbiamo atteso, l’abbiamo provata e ripetuta rapidamente e senz’avvedercene, nel nostro pensiero come due, tre, quattro volte, secondo che l’attenzione è stata maggiore o minore (l’attenzione, dico, o l’impressione che sia) e quindi vi ci siamo assuefatti più o meno, vi abbiamo più o meno accostumato l’animo, cioè ce la siamo posta nella memoria (volendo o non volendo, cercatamente o no) più o meno fortemente e durevolmente. [Zibaldone: 2110-2111]

Rispetto alla trattazione di Soave, inoltre, Leopardi specifica il rapporto tra attenzione materiale e distrazione. Se in una prima fase della sua riflessione, l’involontarietà è il carattere che fa della distrazione il negativo perfetto dell'attenzione, dividere gli stati attentivi in volontari e materiali, consente a Leopardi di individuare nell’involontarietà il nesso concettuale tra attenzione e distrazione.

Per Soave, la distrazione, in quanto fenomeno tutto interno al flusso continuo di pensieri dell'io, può essere concepito solo come difetto dell’attenzione volontaria. Per Leopardi, legare l'attenzione alla forza dello stimolo esterno significa garantire anche alla distrazione un fondamento empirico positivo: la distrazione non è una mancanza di attenzione ma un suo fenomeno interno, una sua involontaria moltiplicazione, legata alla contingenza materiale del mondo esterno, oltre che alla suscettibilità dell’animo.

La eccessiva potenza di attenzione è al tempo stesso e per se medesima, potenza di distrazione, perché ogni oggetto vi rapisce facilm. e potentem. la attenzione distogliendola dagli altri, e l’attenzione si divide; [...] Quindi principalm. nasce la incapacità di attenzione ne’ fanciulli ec. ec. [Zibaldone: 4026]

L’attenzione materiale, moltiplicando nel fanciullo gli oggetti dell'attenzione, diviene «potenza di distrazione». Ma se attenzione involontaria e distrazione possiedono un fondamento comune e ostacolano entrambe i processi di assuefazione che consentono all’individuo di acquisire capacità sempre nuove, in che consiste la loro diversità?

La diversità non è nell’origine, ma negli effetti sulla memoria. L’attenzione materiale, diversamente dalla distrazione, non è mai considerata da Leopardi un negativo della coscienza ma un momento centrale della sua costituzione: essa contribuisce alla formazione dell’identità individuale per mezzo dei ricordi. La distrazione, al contrario, è causata da una successione di stati attentivi involontari tanto veloce da non lasciare traccia di sé, neanche sotto forma di ricordi particolari.

Gli uomini distratti, poco riflessivi ec. non imparano mai nulla. Ciò non prova la lor poca memoria, come si crede, ma la lor poca o facoltà o abitudine di attendere, o la molteplicità delle loro attenzioni, il che si chiama distrazione. Perocchè la stessa troppa facilità di attendere a che che sia, o per natura o per abitudine, la stessa suscettibilità della mente di essere vivamente affetta e rapita da ogni sensazione, da ogni pensiero; moltiplicando le attenzioni, e rendendole tutte deboli, sì per la moltitudine, e confusione, sì per la necessaria brevità di ciascuna [...] rende nulla o scarsissima la memoria, deboli e poche le riminiscenze. [Zibaldone : 3950-3951]

La distrazione, pur essendo attivata dallo stesso principio che provoca l'attenzione materiale - l’azione dello stimolo esterno sulla suscettibilità dell'animo - può definirsi tale solo quando il rapido susseguirsi di stati attentivi non dà luogo ad alcuna forma di memorizzazione. La distrazione non è un difetto della capacità di ricordare, ma la sua causa, è la preventiva negazione di quella memoria, stratificata o puntiforme che sia, che costituisce il fondamento della conoscenza e dell’identità dell’io.

L’importanza di svincolare parzialmente la distrazione dalle qualità dell’animo, vale a dire di spostarne il campo di attivazione dall’interno all’esterno dell’io, legandolo alla contingenza in maniera tanto stretta da farne un principio antagonista alla coscienza di sé, è comprensibile solo all’interno di una prospettiva che non perda mai di vista il problema della felicità nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, e dall’uomo primitivo all’uomo incivilito.

L’attenzione dei fanciulli è scarsa 1. per la moltitudine e forza delle impressioni in quell’età, conseguenza necessaria della novità ed inesperienza: le quali impressioni tirando fortemente l'attenzione loro in mille parti e continuamente, l’impediscono d'esser sufficiente in nessuna: e questa è la distrazione che si attribuisce ai fanciulli, tanto più distratti, quanto più suscettibili di sensazioni vive e profonde: 2. perché anche la facoltà di attendere non si acquista senza assuefaz. ec.: 3. perché la natura ha provveduto in modo che fin che l’uomo è nello stato naturale, come sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo l’attenzione la nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruz. ed infelicità umana. [Zibaldone : 2390]

La varietà del mondo esterno trova nella suscettibilità dell’animo infantile, come in quello del primitivo, un valido alleato contro il perfezionamento dei meccanismi intellettivi responsabili dell’infelicità. Ma la ragione, diretta discendente dell’attenzione, elimina gradualmente la possibilità di essere sorpresi e meravigliati da ciò che Leopardi aveva chiamato «la successione e la varietà degli oggetti e dei casi» [Zibaldone : 104]. L’assuefazione e l’attenzione, affinando le facoltà mentali, indeboliscono nell’individuo la possibilità di essere facilmente ‘impressionato’ dagli stimoli percettivi esterni, e accelerando i processi di acquisizione delle conoscenze sotto forma di memoria, rendono rara la novità.

La distrazione, ostacolando l’attenzione e la memoria, può soltanto rallentare questo processo, ma non arrestarlo completamente. Se dipendesse esclusivamente da un difetto di attenzione volontaria dovuto alla suscettibilità dell’animo, la distrazione si estinguerebbe una volta che l’individuo abbia pienamente sviluppato, per assuefazione, le sue capacità intellettive. Al contrario, legare la distrazione alla possibilità che la mente possa essere colpita da forti sensazioni, significa salvaguardarne la possibilità anche una volta che la ragione, legata all’incivilimento e al potenziamento dell’intelletto, abbia soppiantato la suscettibilità dell’animo e reso la vita monotona.

Tale possibilità, tuttavia, sembra essere solo virtuale: l’uniformità della vita mentale determinata dai progressi della ragione richiederebbe, per essere infranta, distrazioni sempre più forti, violente:

Massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana che contrastano colla vitalità ed energia della giovinezza; in questa mancanza di distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori del suo interno; in somma in questo ristagno della vita al cuore alla mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente. [Zibaldone: 2738, corsivo mio]

Il corrispettivo volontaristico della distrazione violenta è il suicidio: cfr. il pensiero sul suicidio del 18 luglio 1823 [Zibaldone: 2987], nel quale, contrariamente a quanto annota Damiani nel suo commento al testo, mi sembra che Leopardi si richiami piuttosto chiaramente a questo pensiero.

Nella giovinezza e in età adulta, le distrazioni che provengono dall’esterno sono seriamente minacciate dall’abitudine ad attendere e a riflettere, che rende rare le novità e determina la diminuzione delle attività materiali. Ma pur imputando l’infelicità umana ai progressi della ragione, Leopardi non smette mai di individuarne il fondamento teorico nell’amor proprio.

Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poiché naturalm. priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non vi è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere. (20 Aprile. Martedì di Pasqua. 1824). Massimamente poi quando da una parte colla civilizzazione è accresciuta la vita interna, la finezza delle facoltà dell'anima, e quindi l’amor proprio e il desiderio della felicità, da altra parte moltiplicata l’impossibilità di conseguirla, i mali fisici e morali, e finalmente diminuita l’occupazione, l’azione fisica, la distrazione viva e continua. [Zibaldone : 4074-4075]

La drastica riduzione di distrazioni esterne e l’accrescimento della vita interiore, fanno della distrazione violenta l’unico «rimedio» [Zibaldone: 4187] alla violenza dello stare in vita. Questa, pur se determinata fattualmente dai progressi della civiltà e delle conoscenze, è tutta interna all’io, coincide con il fondamento stesso della vita. La distrazione, pertanto, può essere considerata come un rimedio solo in via teorica, poiché nel suo dover essere tanto violenta da trarre l’individuo fuori di sé, è posta in diretta antitesi con l’amor proprio. La distrazione violenta è quella che fa si che l'uomo dimentichi di amarsi, è la negazione, per quanto temporanea e involontaria, del sentimento che fonda l’identità dell’individuo, la sua stessa vita.


Bibliografia