Gennaio
2005


Alessandro Lanni

ORALITÀ, SCRITTURA,
GLOBALIZZAZIONE E NUOVE TECNOLOGIE

intervista con Jack Goody


«Ricordo quando andavo al Pincio in un bar che si chiamava Casina delle Rose. Era il '43. Esiste ancora quel locale?» Jack Goody, classe 1918, è da sessant'anni di casa in Italia. Ma da quando un cameriere di fiducia lo faceva sedere a pochi tavoli di distanza dai soldati nazisti che occupavano la Capitale a Roma è tornato poche volte. «Abitavo dalle parti di Porta Pia», ci tiene a dirmi con un certo vanto. Incontro uno dei monumenti dell'antropologia contemporanea in un bel caffè di fronte al duomo di Modena. Seduti ad un semplice tavolino nel retro sembriamo due turisti a caccia di culatello e parmigiano. Il professore del St. John's College di Cambridge ha una bella camicia da smoking e un gessato senza cravatta. Ho di fronte una testa bianca che sembra Wim Duisenberg, l'ex capo della banca europea. Lo guardo e mi passano davanti decine di titoli che tengo stancamente adagiati nella libreria di casa, titoli che vanno dai classici delle scienza umane come L'addomesticamento del pensiero selvaggio a studi sui fiori (La cultura dei fiori) al mito dell'esotico (L'Oriente in Occidente). Da trent'anni studia il rapporto tra oralità e scrittura e l'impatto che questa "tecnologia dell'intelletto" - così Goody definisce la scrittura - ha avuto sulle società. L'argomento della nostra conversazione era chiaro, dunque, fin dal principio.

Professor Goody, in molti sostengono che dopo l'avvento di nuove tecnologie come Internet alcune capacità dell'uomo andranno perse. In primo luogo la memoria. Ma questo non lo sosteneva anche Platone nel Fedro a proposito della scrittura?

Platone era convinto che la scrittura distruggesse la memoria. In realtà la faccenda è molto più complessa: la scrittura ci offre un nuovo spazio dove immagazzinare le informazioni. Ci consente di riporre le informazioni in un posto fisicamente al di fuori di noi. E quindi non possiamo spostarci portando le informazioni direttamente nella nostra testa, nel nostro cervello. Quindi, è vero che in un certo senso la scrittura compromette la memoria umana. Va specificato però che s'intende nel senso ristretto di quello che è nella nostra testa: la memoria interna.

Ma la Memoria con la "m" maiuscola, la memoria collettiva di una civiltà diventa molto più potente attraverso la scrittura.

È dimostrato che le persone che sanno leggere hanno una memoria molto più precisa degli analfabeti. Infatti, se stai cercando di immagazzinare qualcosa nella memoria e la leggi, ovviamente non la leggerai una volta sola ma parecchie volte, ripetendola a mente mentre la leggi e quindi la fisserai con maggior precisione. Per esempio, molti musulmani imparano il Corano a memoria senza capirne veramente il contenuto sacro e lo stesso avviene in Occidente: molti imparano la Bibbia a memoria magari senza comprenderne il contenuto. Nel fare questo ripetono più volte il testo per impararlo e quindi fanno esercizio di memoria. Ovviamente, dipende da cosa intendiamo per memoria perché se tu mi parli probabilmente posso ripetere quello che hai detto, ma non lo ripeterò esattamente, lo trasformerò secondo la mia soggettività, mantenendone solo l’abbozzo.

Ed è stata la scrittura alfabetica e la pratica della lettura ad operare questa rivoluzione nella nostra capacità cognitiva e parallelamente nella nostra cultura?

Non c’è dubbio che un certo tipo di scrittura possa migliorare la memoria umana in termine di accuratezza e precisione. E anche migliorare in termini quantitativi, perché con la scrittura possiamo aumentare la quantità di informazioni (non possiamo imparare a memoria tutti i libri di una biblioteca).

Cosa pensa dello "scontro di civiltà" in atto in questi anni? Secondo lei ha qualcosa a che fare con uno scontro tra modalità di scrittura, in senso astratto? Tra mondo occidentale che significa mondo alfabetizzato e mondo orientale o arabo che significa un sistema di scrittura non alfabetico, almeno in origineŠ

Si parla molto dei sistemi di scrittura arabo ed ebraico. Hanno anche loro le vocali, come nell’alfabeto greco, ma vocalizzano parlando perché la loro modalità di scrittura si basa solo sulle consonanti. Lo stesso vale anche per l’indiano. Secondo me, però, la logica sottesa a tali linguaggi rimane quella alfabetica (hanno pur sempre le vocali, anche se le mettono direttamente nel parlato), quindi non credo si possa parlare di contrapposizione tra culture originato esclusivamente da un fattore del genere. E penso che tale discorso non possa essere fatto neanche in riferimento al cinese.

Eppure è molto difficile entrare in quelle culture "esotiche" da uomini alfabetizzati.

È vero che noi che abbiamo una scrittura alfabetica non possiamo leggere e comprendere queste lingue senza impararne le regole prima. Ma è anche vero che comunque tutti possediamo dei sistemi di scrittura, e questo è un elemento che ci accomuna più di quanto le differenze specifiche tra “alfabeti” ci dividano. Tutti questi sistemi di scrittura si sono evoluti nel corso dei secoli, e quest’evoluzione ha portato a risultati molto simili nelle diverse culture. In Cina, in India, nel mondo islamico e in Europa. Tendiamo ­ sbagliando ­ a enfatizzare troppo le differenze senza porre l’accento sugli elementi comuni. Le differenze tra le culture sono più di carattere politico che comunicativo.

Secondo lei è possibile stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto tra diffusione di scrittura alfabetica e globalizzazione? E¹ la scrittura alfabetica, con la sua astrattezza e vocazione all'universalità, all¹origine della globalizzazione?

Penso che la globalizzazione dipenda dalla capacità di diffusione delle informazioni in aree sempre più vaste, ma non specificatamente alla diffusione della scrittura alfabetica. Perché la scrittura alfabetica è comunque legata alla lingua nazionale e quindi quando si parla di scrittura alfabetica non si può farlo coincidere con un sistema globale di informazione. Internet, infatti, è diventata il simbolo della comunicazione globale non tanto per la scrittura alfabetica utilizzata, che nella maggior parte dei casi è l’inglese ­ una lingua ormai internazionale ma pur sempre specifica ­ quanto perché rappresenta un modello decentralizzato di comunicazione. Non si tratta tanto di sistemi alfabetici legati a singole comunità linguistiche, quanto piuttosto a un sistema di comunicazione globale.

Può esistere una lingua globale?

E’ universale una lingua che sia più che altro un sistema simbolico condiviso da tutti - per esempio il cinese: è un insieme di segni che significano qualcosa per i cinesi ma possono essere utilizzati anche in altre zone, basta che gli si attribuisca un significato specifico. Una lingua come quella della matematica, che è un linguaggio non alfabetico compreso in tutto il mondo (se scrivo 1 voglio intendere sempre lo stesso concetto, e questo è transnazionale). La matematica non è un linguaggio fonetico in cui i significati sono legati ai suoni delle parole, bensì un linguaggio in cui i significati sono legati al concetto, per esempio il concetto di unità, che è identico in tutte le culture.

È possibile trovare un candidato per questo ruolo di lingua comune?

A questo dobbiamo mirare. È l’obiettivo che i cinesi si propongono per la loro lingua: arrivare a un sistema alfabetico che possa trascendere i singoli gruppi linguistici. Solo allora si potrà parlare di linguaggio globale. Il principale candidato è il cinese, perché ha un sistema di segni grafici un po’ simile al linguaggio della matematica. Tuttavia è difficile da imparare, perché ci sono tantissimi segni da memorizzare. Però potrebbe diventare un sistema universale.

Ma gli occidentali non si piegheranno mai a fare proprio il sistema grafico cinese…

Allora c’è un’altra soluzione più semplice, ma più astratta: quella di imparare solo 26 segni alfabetici, magari inventarli, e costruire un linguaggio ex novo.

In ogni caso, mi sembra di capire che può esistere un legame tra codici grafici e diffusione planetaria di una cultura.

Se parliamo di scrittura in generale, anche quelle non alfabetiche, io credo che sì, l’effetto di globalizzazione viene aumentato dalla scrittura. Credo che questa situazione derivi dal fatto che anche i paesi in via di sviluppo hanno deciso di seguire le altre nazioni e sposare immediatamente la logica dell’alfabetizzazione universale. Un logica che viene portata avanti anche dai programmi di istruzione dell’Unesco.

Sta criticando i programmi dell'Unesco in Africa? Non è forse utile saper leggere e scrivere?

L’alfabetizzazione in un certo senso è stata sopravvalutata, perché per gestire una fattoria in Africa non serve essere letterati. Però è anche vero che i personaggi importanti della storia, soprattutto dell’ultimo secolo, quelli che hanno guidato la resistenza al colonialismo e capi di movimenti indipendentisti per esempio, erano istruiti, e per questo è comprensibile questa ambizione di far tutti uomini colti. Così si è creata una sorta di logica dell’"apologia universale della scrittura”. Ma nel senso che oggi si è globalizzata la capacità di scrivere e non quella di comunicare, perché tutti sanno scrivere ma ognuno lo fa nella propria lingua. Ed è chiaro che se scrivi in un dialetto africano potrai comunicare con molte meno persone che se lo facessi in inglese.

Neil Postman, celebre allievo di McLuhan scomparso da qualche mese, nel libro Divertirsi da morire (I libri di Reset - Marsilio) sostiene che la democrazia è strettamente collegata alla cultura della scrittura e della stampa e che nell'era televisiva un paese democratico sia in pericolo di vita. Cosa ne pensa? La televisione è una minaccia per il nostro intelletto, per le nostre facoltà razionali?

Senz’altro la televisione ha rivoluzionato la nostra visione del mondo, ma credo che il vederla come una minaccia alla democrazia sia un’esagerazione, proprio come all’inizio si era pensato che la scrittura dovesse distruggere il valore dell’oralità. Io invece credo che la tv abbia aumentato la democrazia, in termini di circolazione delle informazioni e allargamento dell’opinione pubblica, soprattutto in Africa o in India, dove anche la gente che non sapeva leggere e scrivere ha avuto finalmente accesso alle informazioni. E poi la televisione segue il gusto popolare, anche se questo può non piacerci, se possiamo preferire Shakespeare alle soap opera. La tv non è tanto una minaccia alla democrazia, quanto alla cultura d’elite. Oltre al fatto che forme culturali prima fruite esclusivamente dall’elite colta, che sapeva leggere, sono diventate accessibili a tutti: pensate ai romanzi, per esempio i Promessi sposi di Manzoni.

Esiste un legame tra filosofia e scrittura?

I filosofi hanno legato in modo sbagliato le acquisizioni delle loro indagini alla scrittura. Le speculazioni della maggior parte dei filosofi che conosciamo sono di ordine logico, e quindi il loro sviluppo si affida alla scrittura; ma anche nelle culture orali, la gente si siede insieme e si interroga su questioni altrettanto degne di attenzione. Il nocciolo della questione è la maggiore capacità di riflessione e approfondimento che la parola scritta ci offre.

Nel suo ultimo libro tradotto in italiano, Il potere della tradizione scritta (Bollati Boringhieri), critica la posizione di Jacques Derrida, forse il più importante pensatore che ha studiato il rapporto tra filosofia e scrittura?

Per quanto riguarda Derrida, egli ha una concezione originale della scrittura: come di un qualcosa di comune sia al mondo scritto che al discorso. In particolare, egli parla delle frasi come di “tracce nella memoria”. E poi confonde, o comunque accomuna, diversi tipi di segni: quelli che scrivi sulla pagina e quelli linguistici che corrispondono al discorso. Una lingua non è semplicemente tracciare dei segni su una parete, su un foglio di carta, ecc. al contrario è un’operazione molto più complessa. Anche io, adesso, parlando, la sto compiendo; e sto utilizzando un codice parecchio specifico e la risposta a Derrida credo l’abbia data Lacan, affermando che bisogna distinguere tra segni grafici e codici linguistici. Due elementi che Derrida confondeva e che invece bisogna tenere separati. La confusione tra i due può andar bene in certi casi, ma a scopo analitico è deviante. Derrida ha secondo me qualcosa di importante da dire quando parla di natura dei segni e della semantica, ma in questo settore preferirei qualcun altro.

Bocciato Derrida, rimane qualcun altro?

Non conosco tutti coloro che si sono occupati dell’argomento, comunque non credo che esista un solo filosofo che abbia catturato la vera essenza della scrittura. E poi credo che la maggior parte delle questioni poste intorno alla scrittura siano state determinate proprio dall’aumento di riflessività e riorganizzazione dei pensieri prodotto dalla scrittura. Con questo non voglio dire che nelle culture orali non ci sia motivo di discussioni. Anche loro hanno sollevato parecchie questioni filosofiche, riguardo soprattutto alla natura del divino e al rapporto dell’uomo con la divinità, perché dio ha creato il mondo, il bene e il male, ecc., visti come problemi concreti. La scrittura invece rende tutto astratto e più distante.


INTERVISTE