Novembre
2007


Massimo Salgaro

LA MEGALOMANIA DI FREUD

intervista con Israel Rosenfield a proposito del suo romanzo Freud’s Megalomania


Israel Rosenfield è nato nel 1949, ha studiato medicina presso la N.Y. University School of Medicine e ha discusso la tesi di dottorato (PH.D) presso la Princeton University. I suoi ambiti di ricerca rientrano nelle neuroscienze e nella psicologia cognitiva. Le sue pubblicazioni sono tradotte nelle lingue più importanti; in italiano si trova: L'invenzione della memoria (Milano: Rizzoli, 1989) e Lo strano, il familiare e il dimenticato, (Milano: Rizzoli, 1992). Con L'invenzione della memoria Rosenfield ha smontato le tesi prevalenti sul funzionamento del nostro cervello, dimostrando come fosse impensabile localizzare la memoria in una specifica area del cervello. Nel corso degli anni ha collaborato con scienziati di fama mondiali come Gerald Edelman, Oliver Sacks, Semir Zeki. Oltre ad aver approfondito i suoi campi di ricerca tradizionali sulla memoria, la coscienza e la percezione Rosenfield ha sempre avuto un occhio di riguardo per il rapporto fra arte e neuroscienze. Attualmente è professore di storia delle idee e di neuroscienze presso la City University of NewYork e vive fra questa città e Parigi. Sia il suo primo studio scientifico (Freud: character and consciousness a study of Freud’s theory of unconscious motives, Univ. Books 1970) sia la sua prima opera letteraria, Freud’s Megalomania, (2000) sono consacrate al padre della psicoanalisi. Questo romanzo è già stato tradotto in francese tedesco, cinese e portoghese ma non ancora in italiano e ruota intorno ad un ipotetico inedito di Freud nel quale egli spiega come inganni e autoinganni siano al centro dell'esperienza umana. Di tale attitudine che è definita «self-deception» ­ per l’autore questo termine è intraducibile ­ Rosenfield ci fornisce nel romanzo numerosi esempi. Questa tendenza assume delle forme psicotiche nei personaggi «megalomani» descritti nel romanzo quali Mosè e Freud i quali con ogni mezzo cercano di imporre la loro autorità.

Dopo anni di studi scientifici hai scritto un romanzo: hai l’impressione di aver utilizzato nel romanzo degli argomenti che hai trattato nei tuoi lavori scientifici? Il soggetto principale del romanzo è una rielaborazione delle teorie freudiane da parte di Freud stesso, quindi un processo che riguarda la memoria.

Non credo. Penso che nella Megalomania di Freud sia descritto piuttosto un ambiente.

Eppure nella Megalomania tu scrivi che la nostra memoria seleziona i ricordi che ci sono utili, dunque anche qui entra in gioco la memoria. In più c’è Freud che si confronta con i propri ricordi.

Sì è vero ed è impossibile da evitare. Nel romanzo cerco di prendere in giro quelli che pensano di avere una visione scientifica della memoria. Se prendi L'invenzione della memoria, vedi che lì cerco di spiegare cos’è la memoria. Nelle neuroscienze si cerca di capire come funziona la memoria, ma bisogna ammettere che non la comprendiamo appieno. Avrei potuto scrivere un altro libro come L’invenzione della memoria, ma ho scritto il romanzo perché penso che bisogna vedere i limiti di questi studi e dire che ci sono dei limiti non è molto interessante. Ho scritto una satira non solo per fare una satira di quel genere di saggio ma anche delle scienze e della psicanalisi, in cui tutti hanno la pretesa di pensare che il proprio approccio spieghi tutto.

Il fatto che Freud critichi le proprie teorie in base alla propria esperienza mi sembra che vada nel senso in cui tu intendi la memoria.

Sì, nel senso che si rivedono e si ricostruiscono continuamente i nostri ricordi ed è così che lui si imbatte nel concetto di «self-deception».

Anche la circostanza che la sua teoria non sia scientifica, nel senso che non è stabilita una volta per tutte.

è vero, la memoria è sempre in evoluzione.

Forse prendo il tuo romanzo troppo sul serio, tu sottolinei sempre che si tratta di una satira.

Questo lo fanno tutti. Penso che ci sia anche un lato serio.

Forse non sei serio quando dici che il romanzo non è serio?

Non voglio dire che il romanzo sia solo una satira, è qualcosa di più di una satira. C’è una parte di commento, la satira è anche commento, è anche seria, io sto marcando i limiti di un certo discorso. Nel romanzo dico: noi esseri umani non comprendiamo certe cose, ma ci inganniamo su noi stessi e sugli altri [la «self-deception»]. Abbiamo la presunzione di capire, ed è vero che noi esseri umani abbiamo la tendenza a illuderci, pensiamo di comprendere, pensiamo di essere buoni, pensiamo x e y, quindi da un certo punto di vista il romanzo è anche serio, è entrambe le cose.

Nei tuoi scritti scientifici esprimi una concezione molto positiva dell’essere umano: consideri l’uomo nella sua esperienza concreta, nel suo contatto con il corpo e con l’ambiente; fai costantemente riferimento alla sua plasmabilità, alla dimensione della possibilità. Mi sembra una visione positiva, ottimistica.

Ottimistica in che senso? Può l’uomo veramente adattarsi al suo ambiente? Ci si può adattare l’uno all’altro? Penso che la Megalomania sia piuttosto pessimista.

Volevo dirtelo dopo: penso che la tua concezione dell’uomo sia più positiva nei tuoi scritti scientifici che nella Megalomania di Freud.

Quando parlo del corpo non parlo del corpo in sé. Quello che voglio dimostrare con i miei scritti scientifici è che si apprende perché abbiamo un corpo, perché ci muoviamo costantemente, perché tastiamo il nostro ambiente, perché facciamo esperienze, ma non siamo coscienti del corpo. Il cervello è in relazione al corpo, se tu perdi un braccio esperisci il mondo in modo diverso; siamo in relazione al mondo attraverso il corpo, ed è il rapporto fra cervello e corpo a determinare la nostra percezione del mondo.

Volevo sottolineare l’esperienza del corpo perché contrariamente a quello che si affermava negli studi sull’intelligenza artificiale tu pensi che per agire nel mondo non è necessario aver immagazzinato tutte le informazioni possibili, ma che nell’esperienza concreta i ricordi vengono ricategorizzati.

Io ho riflettuto sulla natura della coscienza. Una funzione della coscienza è di integrare il presente con il passato. La coscienza non è né il presente, né il passato. Bergson chiamava questo il «ricordo del presente», un concetto che Edelman ha ripreso.

A quale tua scoperta sei più legato? O a quale teoria?

Non ho scoperto nulla. Penso che in fondo non si sia compreso molto, si hanno delle idee, degli approcci, per questo ho fatto della satira. Tutti vorrebbero essere Einstein e spiegare tutto, ma il suo campo era la fisica, il cervello è un po’ più complicato della fisica. Se la fisica è difficile immaginati il cervello, c’è tutta la psicologia umana dietro. Einstein aveva una teoria, tutti gli psicologi, i biologi, i neuroscienziati vorrebbero avere la loro teoria, e di questo voglio prendermi gioco. Non credo che si possa sostenere una teoria sul cervello umano come fanno i fisici per la terra. Io trovo interessanti gli approcci sulla memoria, ma non credo che si possa affermare che la si sia compresa. Si cerca di capire su base neurofisiologica come il cervello integri i ricordi per comprendere il mondo. I problemi della memoria e della coscienza sono legati. Quelli che trattano la memoria come un magazzino d’informazioni non mi interessano molto.

Sei molto scettico. Posso dirti che leggendo i tuoi libri ho cambiato la mia concezione della memoria. Anch’io penso che non sia la teoria definitiva, ma penso che abbia cambiato la mia.

Questo dovrebbe essere il suo scopo.

E non ha cambiato solo la mia concezione della memoria ma anche del passato. Quando si pensa al passato si pensa di solito ad una dimensione dietro di noi, che è staccato da noi, ma come dici tu la coscienza crea costantemente un nesso fra il presente e il passato. Alla fine tu scrivi della memoria, ma non del passato, la memoria serve nella tua ottica ad affrontare il presente. Si potrebbe pensare che ti interessi del passato, in realtà sei proiettato nel presente e nel futuro.

Hai ragione.

Nei tuoi libri cambiano le edizioni e i temi ma i libri sono sempre dedicati a Catherine [Temerson, moglie di IR]. è il tuo punto fermo.

è vero, lei legge tutto, corregge, lei cambia le mie idee.

Torniamo alla letteratura. Quali sono le opere che hai letto, che ti piacciono di più?

Come tutti. Non posso dire di avere un gusto preciso. Leggo testi neuroscientifici, filosofici, non ho un interesse omogeneo. Se vuoi che faccia qualche nome ti dico David Lodge, anche se scrive in modo molto diverso da me. Sul versante della satira potrei citare Swift. Anche Proust mi piace perché si è occupato della memoria; l’idea del legame fra tempo e memoria per me è molto moderno. In L’invenzione della memoria parlo di Proust, un idiota che ha recensito il libro ha scritto che io mi sono schierato per la teoria di Proust, come se esistesse una teoria di Proust.

Infatti ho notato che in molti tuoi scritti scientifici parli di letteratura: in L’invenzione della memoria di Proust, e sia in questo testo che in Lo strano, il familiare e il dimenticato del romanzo giallo. Ciò significa che la letteratura entra nella tua scrittura prima che tu abbia scritto il romanzo.

Non ho fatto degli studi letterari, ma credo che anche nelle scienze e nella matematica ci sia un lato estetico che è molto importante, una certa bellezza nel vedere le cose. Ci sono delle spiegazioni che sono solo svolgimento e analisi che non sono belle. Quando c’è una vera spiegazione c’è anche un lato bello che non si lascia spiegare totalmente, come un quadro.

Pensi che la letteratura possa aiutarti a rendere una teoria più comprensibile per il tuo lettore?

Indirettamente. Non del tutto. Non bisogna prenderla come un trattato universitario. Spesso si leggono delle cose a margine che non hanno niente a che vedere con quello che si sta facendo, e improvvisamente si hanno delle idee che non hanno niente a che vedere con quello con cui ci si stava occupando e che si stava cercando. è quello che io e altri cerchiamo di spiegare sul funzionamento del cervello, che non è diretto, che attinge qua e là, in cui conta anche il caso e nel quale alla fine troviamo una sintesi. Quando la sintesi è buona c’è anche un lato estetico. C’è un lato estetico, anche nella scienza e nella matematica. La gente pensa che nelle scienze ci sia solo un piano sperimentale e logico, ma quando quel piano è superato prende un'altra forma.

Quando scrivi? Ci sono degli orari che dedichi solamente alla letteratura?

No, non c’è un sistema. A volte sono ossessionato da qualcosa e ci lavoro. Non sono molto serio. Faccio quello che mi occupa la mente. Se mi occupo di qualcosa ci sono molte interruzioni, però cerco di seguire un progetto dietro l’altro. Ho scritto una satira su una società che non aveva né una lingua scritta né una orale, è stata una delle mie prime satire. L’idea di partenza era che sulle strade ci fosse talmente tanto rumore che non ci si potesse udire per cui gli uomini erano costretti a comunicare con i gesti; c’erano poi i cosiddetti ascoltatori che rievocano il ricordo dei suoni e cercavano di capire cos’è un ricordo; ho inventato tutto questo, è stato pubblicato per caso [Olafur Eliasson, The blind Pavilion, 2003]. Un'altra satira che ho scritto e che non è stata pubblicata descrive una società in cui una colpa viene attribuita ad una persona qualsiasi che deve difendersi, è un situazione kafkiana. Ma ho sempre fatto questo a fianco degli altri lavori.

Per il romanzo sei partito con un’idea precisa o te la sei fatta in itinere?

Si hanno certe idee di partenza che si pensano di conoscere, ma non si ha mai tutto sott’occhio. Non è un processo lineare. Per esempio adesso ho terminato un romanzo di cui avevo più versioni. Ho prodotto delle versioni partendo dalle versioni che ho rifiutato. Lo stesso è capitato con la Megalomania.

Qual è stata la prima idea della Megalomania di Freud?

All’inizio c’era l’idea del manoscritto di Freud. La versione finale contiene il manoscritto. Nella prima versione non c’era il manoscritto di Freud, se ne parlava solamente. Catherine mi ha detto: perché non inserisci anche il manoscritto? Non c’è problema, ho pensato. L’idea di partenza era una satira di diverse cose, come ti ho già spiegato: da un lato c’era la satira della scienza, dei megalomani, di coloro che si ritengono Einstein. Contemporaneamente volevo prendere le distanze dagli oppositori e dagli ammiratori della psicanalisi, io li trovavo ridicoli. C’era un tipo che scriveva nella «New York Review of books» che prima era un sostenitore di Freud e che era divenuto celebre proponendo delle letture psicanalitiche di romanzi; ad un certo punto è diventato un acerrimo critico di Freud. Come i comunisti che diventano anticomunisti. Nei suoi articoli sulla «New York Review of books » ha parlato della vita di Freud, dicendo che non era onesto, che aveva una storia con sua cognata. C’è stato un incontro a New York su questo argomento, ma non ci sono andato, anche perché avrei dovuto dar loro degli imbecilli. A me non sembra intelligente parlare di qualcuno che non si conosce. L’ispirazione viene da tutto questo. C’è chi ha criticato il mio modo di trattare Freud, di trattare liberamente la sua biografia.

Quando tu parli di satira sembra che tu prenda semplicemente in giro gli ammiratori della psicanalisi e i suoi detrattori. Anche tu però ti sei occupato per quasi trent’anni di Freud; credo che ci sia un’implicazione personale da parte tua e che il romanzo ti sia servito a trovare la tua posizione rispetto a questi.

Quando ho fatto il libro su Freud [Freud: character and Conscioussness. A study of Freud’s Theory of Unconscious Motives, 1970] ero critico con lui. Sì, potrei dare l’impressione di essere ossessionato da Freud ma non lo sono, soprattutto se consideri anche le altre cose che ho scritto e anche le opere non pubblicate ­ ho 4 romanzi non pubblicati nel cassetto fra i quali una specie di romanzo giallo ­ che non hanno niente a che vedere con Freud. Ho anche scritto uno studio mai pubblicato sulla neurofisiologia della coscienza e della memoria che menziono ne’ L’invenzione della memoria [p. 220 dell’edizione italiana], in cui anticipo le idee di Edelman. Anche questo mi ha ispirato per la Megalomania di Freud perché quando ho mostrato in giro questo manoscritto mi hanno accusato di aver trovato la teoria prima che questa fosse stata fatta.

Non credo che tu sia ossessionato da lui. Nel corso degli anni hai assunto una posizione differenziata nei suoi confronti.

Infatti, se si tengono in considerazione anche gli scritti non pubblicati ci si rende conto che non mi sono occupato solo di Freud. All’inizio avevo l’intenzione di scrivere qualcosa di antifreudiano per criticare la sua teoria che pretende di spiegare tutto. In effetti non ce l’avevo tanto con Freud ma con la tendenza a prenderlo per una star, di farne una religione, com’è successo anche qui in Francia, questo non mi sembrava molto intelligente.

Cosa pensi di Freud come uomo?

Niente. Non ci penso. E non penso che ci si possa fare un’idea di lui, ci sono troppi fatti nascosti e anche quando abbiamo i suoi scritti autobiografici non sappiamo come interpretarli.

Nel tuo romanzo utilizzi molti elementi caratteristici di un’opera scientifica: le note, la prefazione, l’indice dei nomi. Perché lo fai? Volevi sperimentare?

Questo fa parte della satira. Volevo imitare e prendere in giro un certo modo di scrivere accademico. è il modo di scrivere degli universitari, dando sempre molti riferimenti, citando sempre, dicendo da dove si prendono le informazioni. I miei libri sono abbastanza parchi di note. Ho già fatto un testo con delle note false, ma l’editore non aveva capito che si trattava di una strategia. Non so se sia una forma originale o sperimentale.

Come hai scelto i nomi dei personaggi?

Tutti i nomi sono inventati. Dicke assomiglia a «dick» che in americano denota il sesso maschile. è un nome divertente, ma non l’ho fatto apposta. Dicke è anche un fisico, ma non lo sapevo; anche la casa editrice pensava che avessi scelto espressamente questo nome, volevo un nome divertente; per Stewart volevo invece un nome qualunque, ordinario, come «Giovanni Tenda».

Perché hai messo un indice alla fine nel quale dividi i personaggi reali da quelli inventati?

Me l’ha consigliato la casa editrice e non l’ho trovato male. Perché molti non si sarebbero resi conto che ci sono molte cose nel libro che sono vere.

In effetti nel romanzo realtà e finzione si contaminano l’un l’altra e con l’indice sembri voler separare la realtà dalla finzione.

Non si possono separare. Il Freud di cui parlo non è il vero Freud.

In effetti anche l’indice è umoristico. Nel romanzo ci sono molti intermediari: il manoscritto è dapprima nelle mani dell’amante di Freud Adelaide Benesch che lo rispedisce a Freud, viene intercettato dalla Gestapo e alla fine della guerra riconsegnato alla figlia di Adelaide Benesch. Viene tradotto in inglese dalla nipote di Freud Bernadette Schilder che lo consegna ad Albert J. Stewart che ne cura l’edizione. Poi c’è l’intervento del Freud-Archiv.

Non l’ho notato, ma questo fa parte della satira. Con tutte queste prefazioni volevo imitare i testi universitari che ne contengono molte. Ma quello che dici tu è diverso. Forse quando inizio a raccontare voglio che sia qualcun altro a raccontare, ma non so veramente.

Avresti potuto anche dire che l’hai trovato in una vecchia soffitta. Invece il manoscritto passa attraverso molte mani.

Non so.

Albert J. Stewart commenta il testo, fa le note, assume una posizione intermedia fra gli ammiratori e i critici di Freud, lo dice esplicitamente. è lui che incarna la tua voce nel romanzo?

Si è vero. è il personaggio con cui mi esprimo di più.

Torniamo a Freud. Nel tuo romanzo lo descrivi come un uomo pigro, miserabile, tirannico, geloso, falso. è un’immagine negativa.

Questo lo si può dire di ognuno, non c’è niente di speciale in questo. In più è un uomo vecchio che si impossessa di una giovane ragazza che vuole impressionare. Non volevo fare un ritratto di Freud. Il suo lato personale non è da mettere in relazione alle sue teorie, probabilmente c’è un nesso ma non so come.

Nel romanzo tu metti Freud in relazione alla letteratura. Dici che lui avrebbe voluto scrivere un romanzo storico, che modificava le storie dei suoi pazienti. è interessante perché nei tuoi scritti scientifici c’è spesso della letteratura e qui invece consideri lo scienziato Freud nella sua dimensione letteraria. Sembra proprio che tu ambisca ad un’ibridazione fra scienza e letteratura.

Sì l’ho fatto, e credo che anche Freud l’abbia fatto. è il lato estetico di cui si parlava: Freud raccontava delle storie e non gli importava se fossero vere o meno. Tutti lo fanno.

Ho apprezzato che in questo romanzo tu cancelli la differenza fra realtà e finzione. Nel tuo romanzo non c’è niente di sicuro relativamente a questo manoscritto: scrivi per esempio che la Gestapo avrebbe potuto modificare il manoscritto e che Bernadette Schilder spera che sia vero affinché la sua vita non si basi su di un’illusione. Anche Anna Freud dice alla fine del suo intervento che spera che non sia tutto solo fantasia. Non si è sicuri di niente.

[ridendo] è vero.

Infatti nella tua teoria della «self-deception» tu dici che non possiamo conoscere né noi stessi né gli altri. Quindi cade la distinzione fra vero e falso.

In un certo senso è vero. Ma contemporaneamente sulla realtà possiamo dire delle cose interessanti e delle cose che sono false. Non posso dire di vedere una persona che sta giocando con un pallone enorme sulla strada. Non esiste. Non si può dire qualsiasi cosa. Ma è vero che non c’è certezza nel romanzo, si è sempre in cerca della verità, ci si rivolge a x poi a y e avanti così. Dovresti scrivere un saggio su questo.

In questo romanzo tu presenti una serie di megalomani: Mosè, Freud, Wagner, Dicke. Da cosa sono legati questi personaggi?

C’è un lato politico in questo. Sono delle persone che hanno delle idee, ma che vogliono dominare. Poi ci sono quelli che li seguono. I megalomani sono persone che si considerano il papa o Dio. E io mi prendo gioco di loro. Il problema non sono loro, ma le persone che li seguono.

Loro si considerano delle autorità e gli altri li considerano delle autorità.

è vero. Einstein ha detto che lui si è sempre considerato anti-autoritario e che gli altri si sono vendicati trattandolo come un’autorità. Freud invece adorava essere trattato come un’autorità.

Qui si innesta una questione morale perché tu dici che noi siamo abituati a seguire delle autorità, senza preoccuparci però se facciano del bene o del male.

Tutti fanno parte del gioco. C’è una questione morale e politica. Si seguono delle autorità senza preoccuparsi da dove provenga questa autorità. D’altronde non si può neanche destituire ogni autorità perché altrimenti ci sarebbe il caos totale. Intellettualmente è bizzarro che si seguano della autorità. Freud e Mosè, è come se fossero delle autorità politiche.

Wagner è molto immorale.

Sì, Wagner è molto immorale perché mette la scienza al servizio di uno stato che compie un’azione immorale, la guerra. Manda i soldati mutilati al fronte.

Anche l’atteggiamento di Freud durante il processo è immorale, il suo atteggiamento con la sua famiglia, le sue relazioni extraconiugali. Da un lato poni una questione morale, d’altro canto svuoti la morale di ogni contenuto. Se come abbiamo appena detto, noi seguiamo le autorità senza preoccuparci se siano morali o meno, la morale in quanto tale si perde. Pare che non ci sia una via di uscita. Penso che qui tu sia più pessimista che altrove.

Non vedo una via d’uscita. Penso che bisogna stare attenti di fronte a persone che pretendono di avere un’autorità. Lo vedrai anche nel romanzo che sto pubblicando che è molto pessimista ed in cui mi occupo nuovamente della questione dell’autorità. D’altronde noi abbiamo bisogno dell’autorità, siamo incastrati.

Sei stato ispirato da La personalità autoritaria di Adorno?

Conosco questo testo che è di stampo freudiano, ma evito questo tipo di cose. Sono testi troppo seri su cui non volevo scherzare.

Nel romanzo tutti i personaggi si illudono in un certo senso. Tutti sono vittime della «megalomania», tutti fuorché i soldati che si rifiutano di andare al fronte e di accettare il ruolo di eroi. Essi rappresentano la speranza, la via d’uscita. Anche in Kafka i personaggi umili sono spesso i portatori di speranza.

Vero. A causa della violenza della loro esperienza non sono più disposti a illudersi, a credere alla «megalomania». Perché è la loro vita stessa in gioco.

C’è un significato particolare per il quale il manoscritto è letto da Stewart durante un viaggio sotto la manica fra Londra e Parigi?

Molti si sono interrogati su questo. Io non ho attribuito nessun significato particolare tranne quello che riguarda la condizione del lettore il quale è incastrato in un tunnel buio.

Nel romanzo tu affermi che la «megalomania» è un’espressione psicotica; mentre nel romanzo ti concentri sulla dimensione psicotica, nelle ricerche psicologiche di Freud è la nevrosi a essere preponderante.

è Freud stesso che nel manoscritto rivede le sue teorie e che si accorge che non è la nevrosi a essere il vero problema ma la megalomania che è psicotica. è una rivoluzione nel suo pensiero. Ma è anche un altro scherzo del romanzo.

In un certo senso sembri dire che il nevrotico è preferibile allo psicotico.

Sì sì [ridendo]

Ora ti espongo sinteticamente quella che potrebbe essere la mia interpretazione del romanzo. Secondo me nel romanzo tu poni una questione morale legata alla autorità, quella che abbiamo appena discusso. Ciò che rende il tuo romanzo originale è che proponi un male ­ la megalomania ­ e anche il suo rimedio. Il rimedio può essere letto in chiave bachtiniana ed è nella struttura del romanzo stesso. La plurivocità del romanzo (i diversi narratori: Freud Schilder, Stewart) ­ la sua polifonia ­ pone le autorità megalomani che tu descrivi in un rapporto dialogico. L’autorità non accetta il dialogo, tu glielo imponi e così facendo la sua autorità è scalfita. Per quel che riguarda Freud il tuo procedimento è ancora più sottile e corrisponde al carnevalesco in Bachtin secondo cui durante il carnevale l’autorità è detronizzata e messa alla gogna. Tu hai tolto Freud dal suo trono e l’hai posto in una dimensione familiare, l’hai descritto con i suoi difetti, con i suoi errori; così facendo ne destituisci l’autorità, proprio la sua che è il più megalomane di tutti. Cosa ne pensi?

Non è male. Io ho scritto questo libro con questo scopo, ma non avevo in mente Bachtin. Ho spodestato Freud dalla posizione in cui è stato posto dai suoi ammiratori. Ho messo Freud con tutti gli altri. La nipote di Freud [Sophie Freud in «American Journal of Psychotherapy»] mi ha dato atto che questo libro non è né contro né a favore di Freud.

Infatti il carnevale è la sospensione delle categorie vigenti. Possiamo dire che c’è una critica alla presunzione della scienza, alla violenza della religione, è un libro antiautoaritario, forse anarchico.

Non del tutto anarchico.

Si può dire che è un libro ebraico? Ci sono Mosè, Freud.

Non ci avevo pensato. Sono stato educato in quell’ambiente, ma non ci sono solo ebrei fra i personaggi. Non è più giudaico che francese. Non è come i romanzi di Philip Roth che fa una satira degli ambienti ebraici. In fondo è un libro antireligioso. Ho preso Mosè, avrei potuto prendere anche Gesù, ma non volevo inimicarmi i cristiani che si sarebbero risentiti se io come ebreo mi fossi occupato della figura di Gesù. Ho ben presente la differenza fra Mosè e Gesù, per entrambi c’è una questione legata all’autorità. La megalomania non è un problema che riguarda solo la religione ma anche la scienza. Stewart e Dicke non sono ebrei. è un problema che ci riguarda tutti.


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