Febbraio
2007


Giovanna Santini

CONTRAFACTA E CANZONE POPOLARE
Data d'immissione:
7 febbraio 2007

Ultima modifica:
7 febbraio 2007

«Nella storia della canzone la contraffatura è un fenomeno antico quasi quanto la canzone stessa»: così Gennrich (1965: 4) inizia il saggio, ancora fondamentale, dedicato a questa tecnica compositiva nella letteratura medievale, e poi prosegue ricordando come lo stesso inno nazionale tedesco sia scritto sulla melodia dell’inno nazionale austriaco (composto da Joseph Haydn nel 1797). La contraffattura (dal tedesco Kontrafactur), procedimento per cui si compone una poesia sulla base di una melodia preesistente, percorre tutta la tradizione poetica occidentale dal Medioevo ai nostri giorni. Già alle origini della poesia europea, musiche famose e particolarmente gradite al pubblico accompagnavano testi diversi. In particolare, nella poesia provenzale l’imitazione melodica è il principio fondante un genere poetico, quello del sirventes, il cui contenuto è normalmente politico, o comunque polemico o moralistico: il trovatore si fa portavoce di un signore feudale o anche in generale di una posizione politica o di un paese, attaccando la parte avversa. Molti sirventesi sono canzoni di crociata ossia testi scritti con la finalità di spingere i cristiani a partecipare alle crociate e di creare un ambiente propizio a queste. Martin de Riquer individua le ragioni del sorgere di questo procedimento imitativo nel fatto che, trattandosi di componimenti legati strettamente all’attualità e alla cronaca, era necessario, da una parte che si accorciassero i tempi di produzione, dall’altra che si sfruttasse al massimo la possibilità di diffusione, incrementata da una musica già nota e apprezzata dal pubblico (Martin de Riquer 1975: I, 54). Il trovatore Bertran de Born, cantore della guerra nel De Vulgari Eloquentia (II, ii, 8) e «seminator di scandalo e di scisma» nella Commedia (Inferno XVIII, vv. 118-128), ci offre una testimonianza interessante rispetto alla tecnica della contraffattura dal momento che in un suo sirventese dichiara esplicitamente di aver composto il testo sul «son de n’Alamanda», ossia di aver ripreso la melodia della tenzone fittizia S’ie.us qier cosseill, bell’ami’Alamanda di un altro trovatore, Giraut de Bornelh. Dal tema cortese trattato nella tenzone di Giraut de Bornelh (che chiede consiglio ad un interlocutore immaginario a proposito del comportamento da tenere verso la sua donna che l’ha improvvisamente rifiutato) si passa al tema politico: Bertran incita il re giovane Enrico II a far valere i suoi diritti contro il fratello Riccardo d’Aquitania (per i due testi cfr. Gouiran 1985: 203-218 e Kolsen 1910: 366-373). Purtroppo, come i medievisti ben sanno, il problema che si presenta nel caso della poesia trobadorica è che la maggior parte dei testi sono conservati senza trascrizione musicale e, dunque, raramente si ha la certezza di trovarsi davanti ad un contrafactum (per la definizione della contraffattura e del problema relativo alla mancanza di trascrizioni musicali antiche cfr. Chambers 1953: 104-20; Marshall 1980: 289-335; Schulze 1989; Canettieri - Pulsoni 2003: 113-165). Di Bertran de Born ci sono rimasti 26 componimenti politici, 7 dei quali riguardano fatti politici locali (normalmente conflitti fra i signori feudali del sud della Francia); le ragioni che spingono Bertran de Born a comporre sono quindi strettamente legate al contesto in cui egli vive: scrive per mettere al corrente degli eventi le persone che vi sono coinvolte, per incitare alla guerra e propagandarne la necessità, per esaltare e ringraziare gli amici e per insultare e ridicolizzare i nemici (alle volte Bertran sostiene la causa del suo signore sperando che in cambio egli sostenga i suoi interessi). Spesso sono componimenti costruiti su strutture metrico-rimiche già sfruttate da altri autori e quindi si può presumere che si tratti di contrafacta, sebbene non si possa trovare conferma in una notazione musicale (Bertran de Born potrebbe di fatto essere considerato, tra i trovatori, il primo autore di contrafacta). Nella poesia trobadorica, anche i generi dialogati come la tenzone, il partimen e la cobla, che prevedono repliche sulle stesse strutture formali e sulle stesse melodie, sono spesso composti a partire da melodie di canzoni già note. In alcuni casi l’uso di una melodia preesistente poteva avere lo scopo di creare un effetto parodico nel contrasto creato tra il nuovo testo e quello originale. L’imitazione musicale svolge un ruolo particolare anche nella lirica galego-portoghese, dove il contrafactum stesso costituisce un genere denominato seguir, diversificato in realizzazioni che variano se, congiuntamente alla melodia, sono ripresi anche lo schema sillabico, lo schema rimico o le rime di un componimento preesistente. Anche nel repertorio religioso si trovano numerosi contrafacta: come già osservava Gennrich, la Chiesa nutriva forti interessi per le canzoni religiose in volgare dal momento che attraverso queste sperava di raggiungere la massa dei credenti anche fuori dai luoghi di culto. In particolare il contrafactum sembrava adattarsi bene al nuovo slancio ricevuto dai culti mariani nel XII secolo, esso permetteva di approfittare della larga fortuna avuta dalle più famose canzoni cortesi, per veicolare testi religiosi e moraleggianti. L’imitazione musicale poteva anche travalicare i confini linguistici: si sono riconosciuti contrafacta francesi di testi provenzali e contrafacta tedeschi di testi provenzali e francesi. Can vei la lauzeta mover, la più famosa canzone di Bernart de Ventadorn e probabilmente una tra le più celebri di tutto il repertorio lirico trobadorico, è oggetto di un contrafactum provenzale (oltre che di imitazioni metriche, per le quali si può ipotizzare anche il riuso della stessa melodia), di tre contrafacta francesi, di cui due jeu parti e una chanson de femme, e probabilmente (stando alle osservazioni di Gennrich) di un contrafactum tedesco. Grande diffusione dovette avere in terra d’oïl anche la canzone di Raimon Jordan Lo clar temps vei brunezir, che già Peire Cardenal usa come modello formale e musicale per un sirventese: la sua melodia fu ripresa da Thibaut de Champagne in una tenzone con Philippe de Nanteuil, e in due canzoni dedicate alla Vergine, una anonima e una di Guillame le Vinier (sui contrafacta della canzone di Raimon Jordan cfr. Asperti 1990: 81 e la bibliografia ivi citata). Il percorso che la melodia della canzone di Raimon Jordan segue, illustra bene, corrispondentemente alla tipologia già individuata da Gennrich, l’insieme dei generi in cui il contrafactum è in qualche modo funzionale: dal testo originale tipicamente cortese, con l’esordio stagionale, la melodia passa ad accompagnare un sirventese a carattere moraleggiante, una tenzone in cui si disquisisce sulla decadenza della fin’amor, e due testi religiosi. Nell’ultimo capitolo del suo studio, Gennrich riporta una lunga serie di esempi che parrebbero documentare fino alla metà del XVI secolo un vivace sistema di rapporti nel patrimonio musicale tra tedeschi, olandesi e francesi. Anche poeti italiani come Feo Belcari, Lorenzo dei Medici, Francesco d’Albizzi utilizzano melodie francesi per comporre testi religiosi, mentre in manoscritti mitteleuropei del XV secolo si trovano contrafacta di melodie italiane. Ancora molti altri esempi di contrafacta si rintracciano cercando nella letteratura scientifica dedicata alla storia della musica, come ad esempio contrafacta sacri delle composizioni di Monteverdi, e via dicendo. Ma la contraffattura non è procedimento esclusivo della produzione letteraria colta: le ricerche condotte negli ultimi cinquant’anni nell’ambito della tradizione folklorica hanno mostrato come questa tecnica compositiva investa tutti i diversi ambiti della tradizione musicale popolare. Se si sfogliano raccolte di canti come quella del 1963 di Leydi, si riscoprono le origini di molte melodie che accompagnano le nostre canzoni più famose. Nell’introduzione alla sua antologia intitolata Canzoniere Italiano, Pier Paolo Pasolini (1955: CXVI-CXVI) ricorda come «molte ninne nanne sono ricalcate sui canti d’amore» e, analizzando i rapporti della poesia popolare con i canti militari, ricorda il contributo che a questi proviene non solo dal canto popolare ma anche dal settore degli strambotti e degli stornelli e da quello della «poesia militaresca risorgimentale, a sua volta di procedenza popolare, ma anche colta» (Pasolini 1955: CXVIII). La Storia d’Italia vista attraverso la musica è costellata di contraffatture: molti dei canti risorgimentali muovono dalla ripresa delle più popolari arie del melodramma e dal patrimonio folklorico regionale; nella prima guerra mondiale i soldati in trincea intonano canzoni del repertorio leggero e cantano, anche improvvisando, una gran messe di rifacimenti e versioni parodiche; alla produzione innodica del Risorgimento attingono gli anarchici e i socialisti, ma anche l’innodia fascista, da quella squadrista a quella istituzionale. Il repertorio di canzoni fasciste segue da vicino, sia per quanto riguarda gli stereotipi culturali sia per le preferenze musicali, il contemporaneo repertorio antifascista e democratico e inoltre il governo fascista si interessa direttamente del recupero delle tradizioni folkloriche a scopo propagandistico (Savona - Straniero 1979: 5). Per Gravelli «il fascismo ha vinto perchè aveva le canzoni più belle» la cui funzione era quella di «dare la gioia al popolo». Savona e Straniero riportano, con un interessante commento, ciò che scriveva Gravelli:

«I socialisti usavano quale mezzo efficace di propaganda, le bande musicali. Poiché in sintesi questo nostro popolo anche con tutte le velleità bolsceviche aveva caro di cantare, prediligendo le arie facili [...] Non esistevano musiche fasciste, nel 1920. Forse qualche fanfara, ed è incerto anche questo. La musica era quella del manganello. Occorre qui che io ricordi una bella figura di fascista e di musicista, il Maestro Damiani di Milano che primo in Italia, io credo, costituì una banda musicale che nel contempo era anche squadra d’azione. Non di rado le trombe diventavano mezzo d’offesa, se non altro perché rompevano i timpani agli avversari. Questa musica fu composta con gli strumenti trovati e predati nella Camera del Lavoro di Sesto S. Giovanni in una spedizione punitiva. Io che allora ero segretario politico di quel Fascio ricordo la mestizia delle canaglie sovversive del mio paese, che non potevano più suonare» (I canti della Rivoluzione, pp. 70-80). Il Gravelli non immaginava qui di aver delineato, del tutto involontariamente, il ritratto più autentico della sua cara «musica fascista»: una musica di scippo, sottratta alla classe operaia mediante «spedizioni punitive», e tanto fragile, nella sua «incrollabile fede», che è ancora lo stesso Gravelli a descriverci, con temeraria intempestività, una specie di surreale «rivolta degli strumenti», senza accorgersi - probabilmente - della gravità e del significato allegorico di quel che scriveva: «Sentii più tardi la musica dei fascisti milanesi, e intesi anche qualche stecca musicale, se così si può dire, poiché talvolta le trombe cambiavano ritmo e da Giovinezza passavano a Bandiera Rossa. Le camicie nere dicevano che era la tromba che si ricordava del passato» (ivi, p. 80). Gravelli è tuttavia tanto onesto da riconoscere apertamente che gran parte del repertorio «nero» si formò sulla falsariga di quello «rosso», e parlando delle canzoni fasciste scrive: «Per lo più furono trasformazioni e adattamenti. La guerra aveva lasciato un’eredità considerevole di motivi già penetrati nell’animo popolare quindi sentiti ed amati dal popolo. Goliardicamente, senza preoccupazione degli accenti e dei piedi furono arrangiate (questi corsivi incongrui sono nell’originale n.d.r) canzonette in voga, canti sovversivi, inni sovversivi» (Savona - Straniero 1979: 7-8).

Come premessa, intitolata Ai miei compagni squadristi, alla sua raccolta di canti fascisti pubblicata nel 1923 Lino Carrara scriveva, non senza esaltare il valore emotivo che a quei canti doveva essere attribuito:

La storia del fascismo si potrebbe fare per mezzo delle sue canzoni; i primi fascisti sono esattamente i continuatori dell’opera e dei mezzi degli arditi, e l’Inno degli Arditi è il primo canto fascista; - chi aveva combattuto per una Patria migliore e si vedeva defraudato dei frutti del proprio sacrificio dall’incoscienza del popolo e dalla vigliaccheria del governo, sentì spontaneamente rifiorire sulle labbra il suono di quest’inno attingendovi entusiasmo e forza per combattere un’altra guerra, tanto più dolorosa della prima; i giovanissimi, quei ragazzacci, che per la loro età non avevano potuto combattere lo straniero, al suono di quest’inno di guerra si accodarono ai loro maggiori e si sentirono d’un tratto anch’essi soldati. Cambiarono le parole di quest’inno, rimase immutato lo spirito che lo aveva per la prima volta animato. [...] I canti qui raccolti, siano essi levigati o rozzi, gentili o brutali, sono sommamente cari al cuore di ogni fascista: troppi nostri compagni sono caduti con codesti canti sulle labbra, perché noi possiamo ormai più dimenticarli. Due inni soprattutto fanno pulsare più forte il sangue nelle vene: la Leggenda del Piave, che mai avrebbe raggiunto l’odierna immensa popolarità se il fascismo non l’avesse valorizzata, e l’inno Giovinezza [...] (Carrara: 1923).

La melodia di Giovinezza era quella di un canto goliardico (intitolato Commiato) molto diffuso all’epoca, composto nel 1909 da Giuseppe Blanc su testo di Nino Oxilia. I percorsi che hanno dato vita a Giovinezza sono raccontati da Asvero Gravelli (1928: 63-82), nella sua raccolta di Canti della rivoluzione fascista: Blanc canta per la prima volta il Commiato alla mensa durante un corso di sci per gli Alpini e i giovani ufficiali lo proclamano Inno degli sciatori; durante la guerra lo stesso canto con le strofe scritte dall’ardito Marcello Nanni si diffonde tra i soldati (senza che Blanc stesso lo sapesse) e viene promosso a Inno degli arditi; nel 1919 la stessa canzone viene adottata dalle squadre fasciste (Savona e Straniero segnalano che una melodia popolare molto simile a quella di Giovinezza è pubblicata da Filippo Marchetti in una raccolta di cantari popolari romaneschi con il titolo Il cerchio). Nella raccolta di Carrara si trovano due varianti una intitolata Inno degli Arditi l’altra Inno fascista; mentre i versi ufficiali dell’Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista vengono poi scritti da Salvator Gotta. Nel tempo il testo si è modificato considerevolmente, mantendo invariati solo la musica e il ritornello, e numerose sono state le varianti adottate via via dai fascisti e infine pure molte furono le canzoni antifasciste composte sulla stessa melodia. Raffaele Offidani (noto sotto lo pseudonimo di Spartacus Picenus) ne scrisse una già nel gennaio del 1919 in cui il ritornello recitava:

Bolscevismo! Bolscevismo!
Tu sei il vero socialismo!
Bolscevismo! Bolscevismo!
Tu ci dai la libertà

Spartacus era solito comporre versi su melodie di canzonette molto in voga, inni, canzoni sovietiche e anche fasciste (è autore di più di cento canzoni e di migliaia di epigrammi e stornelli satirici): compone Ardere sull’aria di Vincere, Compagno Partigiano sull’aria di Camerata Richard, Le gioie del fascismo su Faccetta Nera, etc. Un’altra versione parodica di Giovinezza è quella pubblicata da Settimelli e Falavolti in Canti socialisti e comunisti, in cui il ritornello è così modificato (Settimelli - Falavolti 1976):

Delinquenza, delinquenza,
del fascismo sei l’essenza,
col delitto e la violenza
tu oltraggi la civiltà

Molte altre sono le variazioni, come quella rivolta contro la Guardia Regia in cui il ritornello recita:

Guardia regia, guardia regia,
contro te la guardia rossa
alla prossima riscossa
la tua infamia punirà

Sulla musica della Leggenda del Piave è scritto un altro inno fascista, La leggenda del Fascio, che più che un contrafactum è proprio un rifacimento sulla falsariga del testo originale:

L’Italia mormorava triste ed umile al passaggio
dei cenci rossi ogni primo maggio;
marciava il bolscevismo per spezzare ogni barriera
per togliere alla Patria ogni frontiera;
volean gettar la fame e il disonore
abbandonar l’Italia all’oppressore
[...]
Era un linguaggio falso turpe e nero...
L’Italia mormorò: - Peggio dello straniero

E sempre sulla Leggenda del Piave anche Spartacus compone la sua Leggenda della Neva. Dal riuso di una melodia popolare o comunque portatrice di valori comuni, si passa in molti casi al rifacimento parodico o alla semplice sostituzione lessicale allo scopo di sovrapporre ai contenuti originali altri contenuti che si vogliono far prevalere; alla propaganda politica si aggiunge l’attacco diretto, la provocazione e la critica. In alternativa a Le tre bandiere, canto derivato probabilmente da E la bandiera dei tre colori del Risorgimento e poi del repertorio dei partigiani, i fascisti propongono una versione a loro più favorevole. La strofe in cui sono chiamati in causa, che faceva:

Bandiera nera la vogliamo no...
perché l’è ’l simbolo della galera,
Bandiera nera la vogliamo no

viene cosė trasformata:

Camicia nera la vogliamo sì...
ce ne freghiamo della galera,
camicia nera la vogliamo sì

In alcuni casi il riuso della melodia e anche di parti di testo assume funzione dialogica, come già nelle tenzoni medievali, e si esprime con la veemenza di un’invettiva diretta. Ad esempio, sulla melodia degli stornelli anarchici di Pietro Gori, che recitavano:

O profughi d’Italia, a la ventura
si va senza rimpianti né paura.
Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà
ed un pensiero
ribelle in cor ci sta

si compone il testo cantato dopo la morte del fascista Giovanni Berta ucciso per vendicare l’assassinio di Spartaco Lavagnini:

Hanno ammazzato Giovanni Berta
fascista tra i fascisti,
vendetta sì vendetta
farem sui comunisti.
La nostra Patria è l’Italia bella
la nostra fede è Mussolini
e noi vivremo d’un sol pensiero:
quello d’abbattere Lenin! [...]

i comunisti replicano ancora riprendendo la stessa musica:

Hanno ammazzato Giovanni Berta
dei fasci fiorentini,
è stato vendicato
Spartaco Lavagnini.
La nostra patria è il mondo intero
la nostra legge è la libertà,
e noi viviamo d’un sol pensiero
liberarla l’umanità.
[...]


Come si può facilmente osservare il riuso di una melodia preesistente non può essere considerato procedimento compositivo proprio di una particolare parte politica o di un particolare periodo storico in quanto rifacimenti, imitazioni melodiche e vere e proprie contraffatture caratterizzano la produzione e la propagazione delle canzoni trasversalmente rispetto a epoche e contesti politici. Anche molte delle canzoni della tradizione partigiana sono contrafacta: si pensi, solo come esempio, alla storia, compiutamente raccontata da Bermani, di due tra le più belle e diffuse, ossia Bella ciao e Fischia il vento. La melodia di Bella ciao è la stessa di alcune versioni di una canzone narrativa, Fior di tomba che appunto porta anche il tema del fiore piantato sulla tomba; Fischia il vento fu composta da un gruppo di partigiani sulla base del ricordo di una canzone appresa da uno di loro, mentre era soldato in un corpo d’armata in Unione Sovietica, dalle ragazze e dai prigionieri russi (Bermani 2003). E del resto è evidente quanto anche il partito comunista e in generale la cultura operaia e di sinistra siano stati consapevoli del potere persuasivo della canzone popolare e della contraffattura come mezzo di propaganda. Settimelli e Falavolti riportano alcuni dati offerti dal PCI :

in 45 giorni di campagna elettorale (maggio ’72), la commissione di propaganda ha inviato nelle regioni italiane 1080 spettacoli di propaganda mediante canzoni, utilizzando 25 gruppi(Settimelli - Falavolti 1976: 12).

Sempre a proposito della «comunicazione di classe attraverso la canzone», che i due curatori auspicano, osservano:

tutti siamo testimoni di come in ogni sciopero, lotta o manifestazione l’invettiva, lo slogan, la rivendicazione utilizzino temi popolari già utilizzati venti, cinquanta, settanta anni fa (Settimelli - Falavolti 1976: 14).

In nota riportano i dati relativi ai repertori musicali utilizzati in determinate occasioni di lotta tra il 1971 e il 1972. Alla «Giole» di Castiglion Fibocchi (Arezzo) le operaie hanno cantato parodie di Bella ciao, La Tramontana, Marina, Papaveri e papere, La domenica andando alla messa, Lu primm’amore; alla Lebole di Arezzo si ricanta tra altre Serafino di Celentano, il Nabucco di Verdi, Che sarà.

Come per la poesia medievale anche per la tradizione popolare, alla radice dell’alta frequenza di contraffatture si possono trovare ragioni pratiche. Dal punto di vista sociologico-culturale, si può spiegare il fenomeno a partire dal modo stesso in cui molte canzoni trovano origine. Ad esempio, la riformulazioni di canzoni note e la composizione di testi nuovi su arie vecchie è favorita, come ricorda Pasolini, «dalla immobilità della guerra di trincea, nel ’15-’18» oppure:

come conseguenza di quella fenomenologia strategica [...] e della clandestinità della lotta - con le sue lunghe serate invernali di stasi, nelle stalle o nei casolari delle popolazioni contadine, nei comuni montani.

In queste come in molte altre guerre, in cui la musica distrae, tiene alto il morale, incita alla tenacia e sostiene le ragioni della guerra, il terreno di comunicazione è quello che attinge al fondo culturale comune, e nello stesso tempo alle singole competenze che ognuno mette in gioco. Si osservi che questo fenomeno non deve essere ritenuto esclusivo della nostra cultura, se procedimenti del tutto simili sono stati osservati anche in contesti culturali dalle origini affatto diverse. Ad esempio, Bruno Nettl afferma:

l’uso di mutare i testi lasciando pressoché inalterate le melodie è assai diffuso fra gli Indiani del gruppo pueblo e della prateria, soprattutto con i canti di guerra che vengono continuamente aggiornati secondo gli eventi militari della comunità (Nettl 1956: 93).

La contraffattura può risultare particolarmente utile all’aggregazione e al consolidamento di fazioni, siano esse politiche o tifose, per il carattere «sociale» della musica stessa. Come ricorda Sloboda:

la conoscenza di certi tipi di musica è un prerequisito per essere considerati membri a pieno titolo di certe sub-culture (Sloboda 1988: 23).

Ricordare insieme una canzone, che fa parte di un patrimonio comune nel quale ci si riconosce, e riprodurla con i mezzi che si hanno e con i contenuti che si condividono, genera sentimento di appartenenza. Non è un caso che, come ha osservato Fuksas (1992), anche tra i cori e i jingles da stadio si annoverano molti contrafacta di motivi celebri. Un ragionamento simile a questo può essere valido anche per le canzoni di lavoro o nate dalle lotte operaie. Il Nigra descriveva diffusamente la tendenza della canzone popolare a propagarsi in innumerevoli varianti e rifacimenti:

La redazione prima d’una canzone non può certo essere che opera individuale, tutt’al più d’un coro. Ma è poi continuamente elaborata da molti. Quindi in questo senso si può dire che la canzone popolare è opera collettiva. Nelle canzoni di data recente si scorgono spesso elementi di data più antica. Quando dai nostri contadini si compone una canzone, si comincia a fissare la melodia, e questa è tolta ordinariamente da una canzone anteriore. La melodia determina il metro. Intere frasi e interi versi, e spesso il principio della composizione sono mutuati da canzoni già esistenti. Ciò che si aggiunge di nuovo è spesso scorretto, rozzo e talora confuso; a poco a poco, passando per molte bocche, si modifica, si purifica, si compie; nuove idee si aggiungono; le espressioni scorrette sono successivamente eliminate e sostituite da altre più corrette; queste a loro volta, passando per altre bocche, e trovandosi in ambienti meno propizi, si corrompono di nuovo, si oscurano, per rinnovarsi di poi. Strofe intere si corrodono lentamente, si dimenticano, si perdono; altre nuove pigliano il posto delle antiche. Reminiscenze d’altri canti s’innestano, si propagano, e mutano non solo l’economia, ma il senso e la conclusione della canzone. I così detti luoghi comuni poetici sono largamente messi a contributo. Talora due canzoni si fondono in una. Talora invece una sola canzone di spezza e dà origine a due canzoni diverse. Nel trasmettersi di bocca in bocca il proprio canto, il popolo lo rinnova e lo modifica costantemente nelle forme dialettali e nel contenuto, e finalmente anche in parte nella melodia e nel metro, e queste continue modificazioni costituiscono in realtà una perpetua creazione della poesia popolare; creazione che passa per molte e varie fasi, e le di cui condizioni di vita e di perfezione, o di degenerazione e di oblìo sono intimamente legate con quelle del popolo autore e conservatore (Nigra: 1957: LXVIII-LXIX).

Che la contraffattura possa essere in certe situazioni frutto di un’esigenza pratica risulta poi evidente da testimonianze dirette, come quella di Spartacus Picenus (anche se poi questo procedimento è da lui ampiamente sfruttato a scopo satirico-parodico):

Privo della collaborazione del musicista e dovendo lavorare spesso clandestinamente, il poeta ribelle è quindi costretto a ricorrere alle arie di canzoni preesistenti, non danneggiandone però affatto gli autori, dei quali contribuisce ad arrotondare i proventi.

Ma a parte le ragioni legate alla contingenza della scrittura, nella poesia aulica medievale come nella canzone popolare dei nostri giorni, l’uso di comporre testi su una melodia già nota sembra trovare ragione nelle finalità propagandistiche. Il sirventese politico medievale è stato già paragonato da Karen Klein alla propaganda moderna, in entrambe i casi si tratta infatti di difendere un punto di vista, di screditare l’avversario e attrarre proseliti e sodali (Klein 1971), ed è anche stata già paragonata, da Canettieri, la caratteristica principale che accomuna il sirventes medievale alla canzone politica moderna, ossia il fatto di far uso di musiche preesistenti (Canettieri 1992: XXXX). In entrambi i casi la ripetizione di una musica famosa sembra avere lo scopo di favorire la propagazione e l’affermazione di un’idea. A questo punto ci si può chiedere se e in che modo la ripetizione della melodia sia funzionale al raggiungimento di un «obiettivo psicologico fondamentale», qual è quello della persuasione, e se questa funzione trascenda le differenze culturali e quindi si possa considerare in qualche modo universale. Di sicuro questo procedimento sfrutta l’effetto prodotto da una musica già nota sulla facilità di intonazione e di memorizzazione. La musica, come dimostrato da più parti, aiuta il ricordo: Rubin ha sperimentato l’effetto dell’ascolto di una melodia corretta, di una melodia sbagliata o dell’assenza totale di melodia sulle capacità di rievocazione dell’inno nazionale, dimostrando che l’ascolto della melodia corretta aiuta la rievocazione. Altri studiosi hanno raccolto la testimonianza di cantori che usano la melodia come stimolo per ricordare le ballate e altri esperimenti hanno dimostrato che la musica facilita la rievocazione più di una lettura ritmata e cadenzata (Rubin 1995).

Inoltre, se si dà credito alla teoria del condizionamento, secondo la quale si ipotizza che un brano musicale acquisti il suo significato emotivo in base alle circostanze in cui è stato precedentemente ascoltato (Sloboda 1988), si può facilmente capire come un contrafactum possa essere utile nel rievocare emozioni da sfruttare in contesti diversi. Così nella prima guerra mondiale la contraffattura di canzoni risorgimentali permetteva di rivolgere il sentimento patriottico in favore delle nuove ragioni della guerra e nel fascismo per mantenere la coesione intorno ad uno stato totalitario. Del resto «alcune teorie psicologiche attribuiscono alla musica la capacità terapeutica di ridestare ricordi sepolti» (Pethes - Ruchatz 2005: 371). Comunque la musica, come altre esperienze sensoriali, può funzionare da stimolo per la rievocazione di un’emozione anche in condizioni diverse da quelle in cui è stata precedentemente ascoltata e può creare le condizioni emotive (gioia, malinconia, paura, etc.) adatte per ottenere delle particolari risposte psicologiche (ammirazione, rifiuto, subordinazione, obbedienza, etc.). Altra spiegazione alla tecnica della contraffattura può esser data da quella che viene definita, nel campo delle scienze cognitive, la «legge di Zajonc», dal nome dello studioso che ha individuato il fenomeno: quanto più si è esposti ad una determinata sollecitazione (la vista di un oggetto o di un immagine, l’ascolto di una canzone, etc.) tanto più si è propensi ad apprezzarla, ossia il gradimento aumenta con il numero di esposizioni. Così, la familiarità determinata dalla ripetizione di una melodia può in sé generare attrazione e gradimento e di conseguenza una disposizione favorevole ad accettare il messaggio che essa veicola. Viene in mente a questo proposito la storia del nostro inno nazionale. Pivato, nel suo recentissimo studio dedicato alla canzone popolare come fonte e veicolo per la conservazione della memoria storica, ricorda come anche per il nostro inno, poi musicato da Novaro, Mameli «avesse inizialmente pensato di adattare le sue rime a spartiti musicali preesistenti» (Pivato 2002: 9). Potremmo presumere che le peripezie che il nostro inno ha dovuto affrontare per affermarsi e le antipatie che ancora oggi lo penalizzano (si pensi all’idea di sostituirlo ancora balenata nel 1994), dipendono, oltre che dalle motivazioni storiche e dalle parole difficili, dal fatto di non essere stato composto su una melodia di largo consumo. È possibile che gli italiani non si siano riconosciuti nella sua musica? Forse l’aria di un melodramma o di una canzone popolare avrebbe, in fin dei conti, messo tutti d’accordo: garibaldini, conservatori, democratici e reazionari, oltre che calciatori e intellettuali. Della capacità persuasiva della ripetizione sono ben consci gli addetti all’industria pubblicitaria: le vendite, soprattutto nel caso di prodotti nuovi, sono generalmente incrementate dalla quantità di spot passati in televisione. Lo stesso ovviamente vale per i personaggi politici che, infatti, si contendo i tempi di esposizione sui media. Il cavallo di battaglia di Joseph Goebbels, capo del ministero nazista della propaganda, era l’osservazione che «quello che le masse chiamano verità sono le informazioni più familiari»; egli sosteneva che «la propaganda deve essere sempre essenzialmente semplice e ripetitiva». Come osservano Pratkanis e Aronson in un libro sulla psicologia delle comunicazioni di massa:

La ripetizione di semplici messaggi, immagini e slogan può creare la nostra conoscenza del mondo, definendo quello che è la verità e specificando come dobbiamo condurre la nostra esistenza (Pratkanis - Aronson AA: 153).

E questo è sicuramente l’effetto su cui puntano molti degli inni e degli slogan propagandistici, soprattutto se giocati sul vantaggio di una melodia già familiare. Questa interpretazione troverebbe conferma ex contrario nel fatto che nel campo della musica come nel campo della pubblicità, il riproporre sempre la stessa solfa provoca un fenomeno di «logoramento» (e infatti capita che alcune canzoni anche popolarissime abbiano dei periodi di oscuramento). I pubblicitari risolvono questo inconveniente proponendo delle «ripetizioni con variazione», ossia ripetendo il medesimo argomento in formati diversi, i cantanti e i musicisti variando note o testi. È per lo stesso fenomeno che canzoni uscite temporaneamente di scena tornano alla moda mediante un riarrangiamento musicale o una riscrittura.


Bibliografia