settembre
|
Daniele Mascitelli e Lorenzo DeclichLA SCIENZA ORALE ARABA |
Data d'immissione:
Settembre 2003 |
A lungo si è discusso, ed ancora si discute, se la poesia araba preislamica sia stata realmente orale o meno, e più in generale se la società dell'Arabia preislamica in cui nacque il profeta Muhammad* (analfabeta, secondo la tradizione), fosse davvero una società senza scrittura. Sappiamo ad esempio da al-Balādhurī (m. 892) [De Goeje 1866: 473-4] che alla Mecca ai tempi in cui nacque il profeta vi erano 17 persone che sapevano leggere e scrivere. Sono tante o sono poche?
Numerose testimonianze danno forza ai sostenitori dell'esistenza di una "società delle lettere" preislamica. La grande produzione di poesia da un lato - di cui sono testimoni i corpora a noi giunti, e la sterminata mole di iscrizioni e graffiti rinvenuti in tutta la Penisola dall'altro (circa 12.000 in sudarabico, decine di migliaia in nordarabico, una decina in arabo prima del 622, ma subito a migliaia nel primo secolo dell'egira, e svariate migliaia in aramaico), potrebbero far pensare - addirittura - ad una società di grafomani. Tuttavia, fa notare Christian J. Robin [2001: 560 e ss.], di tutti i testi pervenutici non ve n'è uno che abbia valore letterario in senso stretto: né poesia, né inni religiosi, né mitologia, né storia, né narrativa, ma solo testi legali, celebrativi, amministrativi, firme, tutt'al più epitaffi (seppure con un'unica ma importantissima eccezione).
Ed anche quando le fonti indirette menzionano la scrittura, si tratta sempre di lettere, missive diplomatiche, accordi politico-commerciali, iscrizioni. La scrittura nell'Arabia preislamica, dunque, sembra essere utilizzata solo per scopi pratici, per fissare delle norme oppure per trasmettere e diffondere un sapere tecnico e forse politico, ma non storico, non letterario, non religioso. Questi saperi, di cui ci accingiamo ad analizzare le forme, sembrano essere fondati - invece - su un tipo di trasmissione orale.
Come rilevato dagli studi di J.T.Monroe [1972] e M.Zwettler [1978], infatti, la poesia preislamica (le cui più antiche testimonianze risalgono agli inizi del VI sec.) presenta tutti gli elementi tecnici e mnemotecnici propri della poesia orale riscontrati in altre tradizioni e cioè:
Vi sono almeno altri due elementi intrinseci, peculiari della lingua e della poesia araba, funzionali alla trasmissione orale del corpus letterario:
Morfologia. In arabo le radici, che costituiscono il semantema e sono in massima parte costituite da tre consonanti, si innestano su schemi morfologici a vocalizzazione e sillabazione fissa, costituenti il morfema. Ad esempio: il morfema del participio attivo (e quindi l'agente) segue lo schema CāCiC e il participio passivo (e quindi del prodotto di un'azione) segue invece lo schema maCCūC. Dunque, tutte le parole formate dalle varie radici su questi due schemi avranno simile funzione logica, oltre che una struttura sillabica costante. All'interno della struttura metrico-prosodica del verso, la invariabilità sillabica - come è facilmente intuibile - risulta estremamente utile sia per chi debba comporre estemporaneamente, sia per chi debba memorizzare e ripetere.
Rima. A differenza della poesia classica greca e latina, tutta, ma proprio tutta, la poesia araba classica è in rima, anzi in monorima, e spesso le poesie prendono il titolo proprio dalla consonante con la quale rimano. La rima (qāfiya) consiste nell'identità consonantica e vocalica dell'ultimo piede del verso che prende il nome di rawī. Generalmente, nel genere della qasīda, ossia la forma principe della poesia araba, rimano fra loro anche i primi due emistichi.
La rima non è esclusiva della poesia. Anche gli "indovini" preislamici, o più genericamente quelli che possiamo definire come "i portatori del discorso religioso" (kāhin), usano un "parlare rimato" che assolve a funzioni mnemoniche: il saj` (prosa rimata).
Gli elementi tipici delle manifestazioni culturali e folkloristiche trasmesse oralmente (metrica rigida, rima, brevità del testo, formulari, scarso uso dell'enjambement, ecc.) sono funzionali alla loro interpretazione drammatica. Il testo orale è destinato ad essere performato. Anche la poesia (shi`r) preislamica è principalmente una forma di intrattenimento e il poeta (shā`ir, letteralmente "colui che percepisce, colui che è sensibile") è sostanzialmente un "perfomer" [Zwettler 1978: 26 e ss.; Monroe 1972: 12 e ss.]. Il poeta deve padroneggiare la lingua, la metrica, la prosodia, e tutte le tecniche di composizione orale, acquisendo e affinando un proprio patrimonio formulare - attinto dal fondo tradizionale comune - che sia flessibile e adattabile alle diverse situazioni performative. La sua "bravura", dunque, risiede soprattutto nella capacità di improvvisazione. In altre parole come un musicista inizia la sua improvvisazione con le scale che tutti conoscono, aggiungendo nel corso della performance le sue variazioni, il poeta inserisca i suoi particolari accenti su uno spartito che l'uditorio trova familiare (usatissime formule iniziali sono <<qifā wa-nabki>>, "fermatevi e piangiamo insieme"; <<li-man talālun>>, "di chi sono le vestigia di accampamento") e attraverso uno schema narrativo precostituito, seppure aperto. Il tutto finalizzato a colpire l'uditorio (dare emozioni, appunto).
Nell'Arabia preislamica il patrimonio storico-letterario, ossia la produzione dei poeti e degli indovini, è custodito nella memoria del trasmettitore orale: il rāwī (plur. ruwā), un vero e proprio professionista delle tecniche mnemoniche. Il materiale che il rāwī acquisisce e "trasmette" è dotato di strutture formali funzionali alla trasmissione del sapere. Infatti, se tutti i componenti di una tribù possono in qualche modo dirsi trasmettitori "amatoriali" in quanto tutti, nel momento in cui vogliono raccontare la propria storia e la propria mitologia, possono citare qualche verso in maniera più o meno fedele a come lo hanno udito, il rāwī - figura semi-istituzionale all'interno di ciascuna tribù, quasi il depositario della memoria storica dell'orgoglio tribale - garantisce una "trasmissione perfetta" grazie all'impiego di tutte le sue abilità e tecniche.
La sua figura assolve a diverse funzioni: è al tempo stesso rapsodo e trasmettitore, cantastorie e filologo, impara a memoria le poesie, le raccoglie e le interpreta in pubblico; dovendo approfondire anche le tecniche di composizione, per soddisfare al meglio le esigenze dell'auditorio, può a sua volta produrre nuove poesie. Infine le spiega, raccontando i contesti e le circostanze storiche o leggendarie a cui esse sono legate.
Nel 612 debutta in Arabia la missione profetica (nubuwwa) di Muhammad , che consiste nell'annunciare agli Arabi la "parola divina". Il Profeta (nabī, "nunzio") può sembrare un poeta, per le sue capacità performative, può sembrare un indovino, per il fatto che recita in prosa rimata, può sembrare un rāwī , per il fatto che ripete qualcosa che gli è stato insegnato, ma non porta poesia né oracoli, bensì annuncia la "parola divina", si esprime nelle forme che Iddio gli indica, anzi è Iddio stesso che parla per sua bocca. Infatti, a differenza del Dio biblico o cristiano, il Dio musulmano non fa discendere le sue tavole della Legge, vergandole di sua mano, né ispira a qualcuno la scrittura di un testo sacro. Rivela invece "in un sol colpo" al suo Inviato, per mezzo dell'Arcangelo Gabriele, una "recitazione" o "lettura" - qur'ān (Corano, cioè) - durante una "notte benedetta"; un "discorso" che deve essere riportato agli Arabi nella forma esatta in cui è "disceso".
Il Qur'ān, dunque, è un atto orale e performativo la cui modalità di trasmissione sembra ricalcare quella della letteratura orale ma, al tempo stesso, rappresenta un nuovo genere letterario. Esso si distingue, fra l'altro, per un uso fortemente innovativo del linguaggio: propone il dogma di una lingua "perfetta" e "unificata" che superi la Babele tribale preislamica, disseminata di varianti dialettali e divergenze lessicali.
Quali sono le conseguenze dell'introduzione del Corano?
`Antara, uno dei più antichi poeti preislamici il cui nome è giunto fino a noi, apre una famosa qasīda chiedendosi:
i poeti hanno lasciato ancora qualcosa da dire? e tu hai riconosciuto infine il luogo ove dimorava l'amata?
Questi versi, come osserva Abdalfattah Kilito [1988c: 5 e ss.], pongono l'ode al termine di una tradizione narrativa che ha sempre cercato invano di rispondere a domande simili. Essi riagganciano la memoria dell'auditorio a qualcosa di noto e, se autorizzano il poeta a dire qualcosa che non è ancora stato detto, pongono la poesia stessa alla fine di un percorso lungo il quale si sono sovrapposte le voci di anonimi performer e trasmettitori, ciascuno dei quali procedeva sulle tracce dell'altro. In questo meccanismo, comune a tutta la produzione poetica preislamica, la questione dell'autenticità, dell'attribuzione, del plagio e della falsificazione - in una parola dell'autorialità - ha dunque un'importanza relativa rispetto al bagaglio formulare della poesia orale, che è il vero patrimonio della collettività.
Solo quando sulla scena irrompe la profezia, si pone il problema dell'autenticità, introducendo uno degli elementi fondante dell'intero costrutto culturale arabo islamico: l'autore. La figura dell'autore/discorso autorevole acquista infatti notevole importanza nell'Islām poiché è Iddio stesso a ricoprire per antonomasia questo ruolo: egli è il primo "firmatario" di un'opera - il Corano - la prima entità individuale autoriale-autorevole,
laddove il suo Inviato è semplicemente trasmettitore/amplificatore del messaggio.
Se il Profeta non è (per dogma) autore del Corano, è però anche il primo personaggio storico le cui parole e azioni devono necessariamente essere dichiarate autentiche: il Corano stesso consiglia al buon musulmano di prendere a modello di comportamento la condotta del profeta. I "detti e fatti" di Muhammad devono acquistare, dunque, quei connotati di autorità che risultavano irrilevanti o comunque di relativa importanza per tutti i "portatori di sapere" precedenti.
Il "sapere autoriale/autorevole" di Muhammad verrà conservato con modalità fortemente originali e innovative perfino rispetto al Corano: i "detti e fatti" del profeta (il cui corpus prenderà poi il nome di sunna, tradizione) sono "testi orali", né in versi né in prosa rimata, raccolti e custoditi fedelmente nella memoria dei suoi primi Compagni. Essi sono trasmessi di generazione in generazione attraverso una "catena di trasmettitori" (isnād) che, a sua volta, deve possedere l'autorità necessaria perché la trasmissione sia considerata valida (sahīh) e degna di fede ("Vera", dunque). In breve, il testo trasmesso (matn) è considerato ininfluente e inaffidabile se non è "appoggiato saldamente" (musnad), ovvero è dotato dello strumento preposto ad accertarne l'autenticità. Questo dispositivo, in cui i due elementi (matn e isnād) si appoggiano l'uno all'altro, costituisce un nuovo strumento del sapere, il hadīth (racconto, evento, "nuova") che sta alla base del concetto di autorità e autorialità nell'Islām. Si tratta, anche in questo caso, del prodotto di una cultura orale.
All'alba dell'islām la scrittura è ancora uno strumento di trasmissione del sapere fortemente inadeguato e inadatto alla fissazione inequivocabile di un testo. Essendo l'evoluzione di un alfabeto di tipo aramaico (il nabateo), l'alfabeto arabo contava 21 consonanti, mentre i fonemi consonantici dell'arabo sono 28; come in tutti i sistemi grafici semitici, non vi sono segnate le vocali (se non alcune vocali lunghe e in maniera irregolare); inoltre, dato il suo carattere di corsivo, vi sono numerose consonanti che, legate fra di loro, hanno la stessa identica forma. Di conseguenza, l'ossatura grafica di un testo veniva utilizzata per lo più come una sorta di spartito che desse l'incipit a un qualcosa che già si conosceva a memoria. La composizione letteraria, in definitiva, era ben lungi dal trovare nella forma scritta il suo veicolo di trasmissione. L'introduzione di espedienti ortografici per una registrazione più analitica del testo (punti diacritici, vocali brevi, hamza, shadda, ecc.) è direttamente connessa alla trascrizione della profezia coranica. Solo da quel momento la scrittura, nella sua accezione meramente grafica (khatt), riceve un riflesso della sacralità del Testo Sacro sviluppandosi in tutti in tutte le direzioni.
Il Corano è un vero e proprio "libro orale". Pur essendo stato trasmesso da Dio a Muhammad, e da questi agli arabi, in una forma prettamente orale, esso è già SCRITTO (mastūr, "vergato, tracciato") nella "Madre/Matrice del Libro" (Umm al-Kitāb), cioè una sorta di archetipo increato che rappresenta una scrittura perfetta ed immutabile.
L'immutabilità del Corano non consiste nel fatto di essere stato messo per iscritto dagli uomini (come la Bibbia o il Vangelo), bensì nel fatto di essere una composizione divina fedelmente recitata. Ne consegue che il Corano, anche quand'anche assumesse la forma concretamente grafica di un volume, non sarebbe un Libro scritto, bensì "trascritto". L'innovazione nel concetto di "madre del Libro" sta nel suo essere "elaborato a priori", e cioè nell'essere una "composizione" preesistente alla sua trasmissione. Per la prima volta la composizione di un testo letterario è concepita come definitiva e fissata una volta per tutte (e nello specifico perfetta).
Dal momento che Iddio comanda al suo Inviato di recitare (o tutt'al più leggere) il suo messaggio, Muhammad, durante tutta la sua vita, non si preoccupa di fissare per iscritto la "Recitazione divina". Questa, dunque, essendo soggetta alle regole della trasmissione orale - stante anche la struttura del testo, che non è quella formulare della poesia - rischierebbe di espandersi a dismisura in varianti/aggiunte/elisioni che comprometterebbero l'unicità/univocità, autorialità/autorità del messaggio originario. Ciò di fatto avviene per un certo periodo in cui si producono numerose "letture" del testo (di cui 7 verranno riconosciute ufficiali).Fortunatamente Iddio autorizza la trascrizione del suo messaggio a ché sia ricordato
e, così, circa 18 anni dopo la morte del Profeta, il Corano viene trascritto (nella sua forma pressoché definitiva). Per la prima volta in Arabia un'opera di carattere letterario (e non esclusivamente legale/normativo) viene messa per iscritto in un "libro". Ma con "libro" (kitāb), a quel tempo, si intendeva sostanzialmente un registro/indice. Il Corano stesso contiene diversi riferimenti in merito: i libri di cui parla sono quelli in cui sono meticolosamente registrate tutte le azioni umane prima ancora che siano compiute;
dunque una "raccolta" o "compilazione" (questa è forse l'origine etimologica del verbo kataba "scrivere") di tipo documentale.
Essendo i criteri sottesi alla redazione di questa prima "opera letteraria" vincolati a questa idea di libro, non è un caso che l'ordine in cui le rivelazioni coraniche sono arrangiate sia indipendente dal loro contenuto. In esso non vi è alcun legame cronologico o tematico fra un capitolo (sura) e l'altro (e spesso fra gruppi di versetti nella stessa sura): esclusa la prima sura (la "Aprente") l'ordine dei capitoli è determinato solo dalla loro ampiezza. Alla redazione di tipo archivistico del Corano, inoltre, non soggiace alcuna delle funzioni mnemotecniche in uso nell'Arabia del tempo.
Una delle conseguenze di questa trascrizione e redazione del Corano - ossia nel momento il cui è "Il Libro", a costituire l'autorità fondante di un intero sistema di sapere e di una intera società - è la nobilitazione da un lato del concetto - prima pressoché inesistente - di scrittura intesa come composizione (kitāba), dall'altro del concetto di scrittura intesa come strumento di espressione grafica (khatt). La scrittura divina dell'Umm al-kitāb, infatti, non è collegata con il sistema di scrittura usato dagli uomini e, giacché la "parola" coranica è parte del Libro, mentre la sua scrittura non lo è (o lo è solo nella sua dimensione divina), l'unico collegamento fra i due elementi sta nel dispositivo della "recitazione" (qur'ān). La kitāba, piuttosto, è direttamente connessa al concetto di autorità e di autorialità. Scrivere un testo equivale a fissarlo e renderlo il più possibile immutabile; firmarlo poi (o attribuirlo a un autore "autorevole") significa conferirgli autorità. Insomma: khatt e kitāba divengono un valido strumento di trasmissione del sapere.
Anche grazie a ciò sarà ammissibile, e finanche raccomandabile, scrivere (kataba) la "Biografia del Profeta", o le raccolte di hadīth, o il canzoniere di un poeta, o la narrazione storica degli eventi importanti, o un trattato di grammatica. I primi "libri" scritti in epoca islamica sono per l'appunto la Sīra di Ibn Ishaq, il al-Muwatta' di Malik, le cronache di Abū Mikhnaf che diventano la fonte di Tabarī, i primi trattati di al-Duwālī.
* Per esigenze editoriali il testo è qui presentato con una traslitterazione semplificata. Una versione traslitterata scientificamente è disponibile contattando gli autori.