gennaio
2003



Julián Santano Moreno

IL SOLCO E IL VERSO
IL LUOGO DELLA METAFORA
Data d'immissione:
Gennaio 2003


1. Il solco e il verso

In Campos de Castilla [Macrì 1989: 600] Antonio Machado dedicava una poesia al primo tra i suoi poeti, Gonzalo de Berceo; di lui dice che:

Su verso es dulce y grave: monótonas hileras,
de chopos invernales en donde nada brilla,
renglones como surcos en pardas sementeras,
y, lejos, las montañas azules de Castilla.

(«Dolce e grave il suo verso; monotoni filari
come pioppi invernali dove niente riluce;
e righe come solchi in grigi seminati
e, lungi, le montagne azzurre di Castiglia»)

[Macrì 1959: 443].

Machado vede i suoi versi attraverso due immagini: una fila («monótonas hileras de chopos invernales») e un solco («renglones como surcos en pardas sementeras»). Queste immagini poetiche dell’autore spagnolo costituiscono ciò che noi possiamo chiamare metafora agricola della scrittura o dell’atto di scrivere, che compare anche nelle Myricae di Pascoli, in una poesia dal titolo Il piccolo aratore :

Scrive… (la nonna ammira): ara bel bello,
guida l’aratro con la mano lenta;
semina col suo piccolo marrello:
il campo è bianco, nera la sementa.

D’inverno egli ara: la sementa nera
d'inverno spunta, sfronza a primavera;
fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo
rotola in aria, e il serpe esce dal balzo.

[Nava 1974: 176]

La prima parola «scrive» è anche la soluzione dell’indovinello. La metafora era già nota ai classici latini: Isidoro di Siviglia raccoglie un verso di T. Quinctius Atta, scrittore di commedia, morto nel 80 avanti Cristo :

Vertamus vomerem
in cera mucroneque aremus osseo

[Etym. VI, 9]

in cui arare sta per scrivere e anche vomere per stilo [Monteverdi 1945: 45]. In questo modo, Isidoro di Siviglia ci ha tramandato una metafora poi diffusa in tutto il medioevo. I riscontri si trovano negli Aenigmata anglica, nelle composizioni degli anglossasoni Aldelmo, Tatwino, Eusebio, nei versi del longobardo Paolo Diacono e nel famoso indovinello veronese. In un enigma di Aldelmo, la bianca penna parla così:

DE PENNA SCRIPTORIA
Me pridem genuit candens onocrotalus albam
Gutture qui patulo sorbet de gurgite lymphas.
Pergo per albentes directo tramite campos,
Candentique viae vestigia cerula linquo,
Lucida nigratis fuscans anfractibus arva.
Nec satis est unum per campos pendere callem,
Semita quin potius milleno tramite tradit,
Quae non errantes ad coeli culmina uexit.

[Rajna 1928: 307]

Tatwino, arcivescovo di Canterbury, morto nel 734, chiama campo la carta e parla anche di solchi e di solcare:

DE PENNA
Natiua penitus natione, heu! fraudor ab hoste;
Nam superas quondam pernix auras penetrabam:
Vincta tribus, nunc in terris persoluo tributum;
Planos compellor sulcare per equora campos;
Causa laboris amoris tum fontes lacrimarum
Semper compellit me aridis infundere sulcis.

[Rajna 1928: 308]

L’aratro, insieme all’immagine della sementa, compare in un altro enigma di Aldelmo, ma in questo caso si tratta della tavoletta di cera e lo stilo:

Nunc ferri stimulus faciem proscindit amoenam
flexibus et sulcos obliquat ad instar aratri,
sed semen segiti de caelo ducitur almum,
quod largos generat millena fruge maniplos.

[Monteverdi 1945: 44]

In modo simile si esprime Eusebio:

Equalem facie scindit me vomer acutus.

[Ibid.]

L’immagine del vomere come penna e del campo bianco come carta si trova in una epistola poetica di Paolo Diacono:

Candidiolum bifido proscissum vomere campum
visu et restrictas adii lustrante per occas.

[Monteverdi 1945: 45]

È ormai un’opinione comune vedere «l’uomo che scrive» [Roncaglia 1987: 173] come soluzione dell’indovinello veronese:

Se pareba boves, alba pratalia araba,
(et) albo versorio teneba, (et) negro semen seminaba.

[Roncaglia 1987: 169]

Il tema d’una descrizione metaforica della scrittura, appartenente alla stessa famiglia dell’indovinello veronese, s’insinua nella clausola dello scriba del codice Parigino 4415, trascritta probabilmente nel 783 nello scriptorium di Sant’Aniano ad Orléans:

Vos autem lectores, qui istum libellum legeritis, manus vestras bene diligite, et digitos estros longe ponite ad scripturam; quia qui nescit scribere nullum labore estima, quia quinque berni arabant, tres operabant sulcisque faciebant. O quam grave pondus scriptura!

(«Quanto a voi, lettori, curate bene la pulizia delle vostre mani, e tenete le vostre dita lontane dalla scrittura; giacché chi non sa scrivere non lo stima fatica alcuna, ché cinque servi aravano, tre lavoravano a fare i solchi! O che grave fatica la scrittura!»)

[Roncaglia 1987: 175]

Si possono trovare ancora altre versioni viventi dell’indovinello che servirono d’ispirazione a Pascoli per Il piccolo aratore. De Bartholomaeis [1927 : 200-202] segnalava una variante lombarda del Canton Ticino:

Campo bianco,
semenza negra;
Düü ca guarda
e trii ca mena.

Un’altra versione del Parmigiano dice:

Il campo bianco,
nera la semente;
tre buoi lavorano
e due non fanno niente;
e la gallina beve.

I tre buoi che lavorano sono le dita: il pollice, l’indice e il medio; la gallina è la penna che si bagna frequentemente nell’inchiostro. Nel Leccese:

Cinque su li stantuli
E unu lu pinnente:
Janca è la terra
E niura la semente.

Li stantuli sono le stive, cioè le dita della mano e lu pinnente il vomere, cioè la penna. A Polizzi, in Sicilia:

Bianca muntagna,
E niura simenza
E l’omu chi simina sempri penza.

In una postilla De Bartholomaeis [1928: 69-70] adduceva una versione gallurese, in Sardegna:

Campu biancu e simenza niedda;
Due figghiulanu e cincu la poltanu.

Il folklorista Antonio Machado y Álvarez, padre del poeta Antonio Machado, segnalava due versioni castigliane e una catalana. Le due castigliane:

Campo blanco, simiente negra
Y cinco bueyes aran en ella.
Campo blanco, flores negras,
Un arado y cinco yeguas.

Nella seconda le lettere sono fiori e le dita cavalle. La versione catalana:

Qu’es aixo:
-El camp es blanch,
La llavó es negra,
Cinc son els bous
Qui tiran rella-?
-L’escriure.

Carlo Piancastelli, un bibliofilo e studioso romagnolo che si era occupato dell’indovinello dello scrivere, pensava a un’origine unica di esso [De Bartholomaeis 1928: 71]. Il luogo d’origine per Piancastelli sarebbe stato Roma.

Bisogna dire che l’immagine comparativa dell’azione dello scrivere con quella dell’arare è racchiusa nello stesso lessico latino. Il lat. VERSUS ha significato dapprima «solco»; con questo senso lo usano ad esempio Columella (2. 2. 25) e Plinio nella Historia Naturalis (18, 19, 49, § 177). Virgilio può usarlo nel senso generale di «fila» (Georgicon IV, 144): «Ille etiam seras in uersum distulit ulmos». Anche Livio (33, 30, 5) parla di «versus remorum» e Plinio (Hist. Nat., 15, 29, 37, § 122) di «versus foliorum». VERSUS veniva usato particolarmente per designare la linea di scrittura e, in poesia, il verso: «ut primum versum (legis) attenderet» (Cicerone, Rab. Post. 6, 14], «deplorat primis versibus mansionem suam» [Id., Att. 2, 16, 4), «magnum numerum versuum ediscere» (Cesare, Bell. Gall. 6, 14), «Cur non, Mopse, boni quoniam conuenimus ambo, / tu calamus inflare leuis, ego dicere uersus, / hic corylis mixtas inter consedimus ulmos?» (Virgilio, Ecloga V, 1-3). Il senso di questo slittamento semantico solco > verso lo spiega Isidoro di Siviglia per l’uso degli antichi di scrivere nella stessa direzione utilizzata per arare la terra, portando lo stilo da sinistra a destra, per poi girare e ritornare verso destra: «Versus autem vulgo vocati quia sic scribebant antiqui sicut aratur terra. A sinistra enim ad dexteram primum deducebant stilum, deinde convertebantur ab inferiore, et rursus ad dexteram versus; quos et hodieque rustici versus vocant» (Etym., VI, 14, 7). Si tratta del tipo di scrittura bustrofedica, che cambia direzione a ogni riga alla maniera in cui si conducono (strephô) i buoi (boûs), quando solcano alternativamente il terreno da destra a sinistra e da sinistra a destra. I contadini contemporanei di Isidoro di Siviglia continuavano a chiamare «versi» i solchi.

Se il solco può diventare la riga e il verso, non colpisce affatto che ARARE, oppure i suoi composti EXARARE, INARARE, PERARARE, si usino nel senso di «scrivere». Cicerone, nelle sue lettere, usa exarare: «undecimo die postquam a te discesseram, hoc literularum exaravi» (Att., 12, 1), «novum proemium» (Fam., 12, 20), «a te harum exemplum in codicillis exaravi» (Fam., 9, 26); Plinio (Epist., 7, 4, 5) «id ipsum, quod me ad scribendum sollicitaverat, his versibus exaravi»… E l’espressione che si trova in Paolo Diacono «verba exarata» [Monteverdi 1945 : 45]. Con perarare: Ovidio (Met., 9, 563): «talia perarans manus», «litteram» [Ars Amatoria, 1, 455], «peraratae tabellae» (Amores, 1, 11, 7); Statius (Silvae, 4, 5, 24) «perarare carmina auro». Non sorprende nemmeno che nel caso di T. Quinctius Atta si trovi il VOMER nel senso di «penna», accanto a exarare, per «scrivere». In un esempio del secolo X, rilevato da Du Cange[s. v.] nella Vita S. Idae di Uffingo di Werden, il VOMER è la penna di oca adatta per scrivere:

«Omnia autem velle disserere, quae eo loci beatae Ydae opitulamine patrata audivimus, non nostrae opis est… aut anserino vomere apte exarare»
.

Borges [2001: 26] riprende un’idea del poeta argentino Leopoldo Lugones: in premessa a un libro intitolato Lunario sentimental [Buenos Aires 1909], Lugones afferma che ogni parola è una metafora morta. Lo stesso Borges dice che se prendiamo un buon dizionario etimologico e cerchiamo una qualunque parola, troveremo di sicuro una metafora infilata da qualche parte. Consultando il vocabolario etimologico inglese di Walter Skeat, Borges rilevava nei primi versi del Beowulf la parola threat che significava «una folla furente», sennonché il termine è passato a designare l’effetto in luogo della causa. Cosi come king, in origine cyning con riferimento a «un uomo che rappresenta la sua stirpe, la sua gente». In questo modo, etimologicamente, king, kinsman (parente) e gentleman sono la stessa parola. Sennonché, osservava ancora Borges, nella frase «Il re era nel suo gabinetto a contare il denaro», non contempliamo la valenza metaforica della parola king. Quando ci muoviamo nel campo del pensiero astratto, dobbiamo dimenticare che le parole erano metafore. Dobbiamo dimenticare che il verbo consider (considerare) comporta un riferimento all’astrologia, dal momento che, in origine, consider significava «essere con le stelle», «fare l’oroscopo». Una metafora è tale se il lettore o l’ascoltatore ne riconosce la valenza metaforica.

Quando Antonio Machado vede il verso di Gonzalo de Berceo come monotoni filari di pioppi e le righe come solchi in grigi seminati, siamo in presenza di una metafora viva. Anche quando Pascoli paragona l’atto di scrivere a quello di arare un campo come facevano nel medioevo gli Aenigmata anglica, l’indovinello veronese e le sue versioni viventi e autori come Aldelmo, Tatwino, Eusebio e Paolo Diacono, capiamo che si tratta di una metafora, una metafora sentita come tale da chi ascolta o legge. Quando gli autori latini usavano VERSUS nel senso di «fila», oppure nel senso di «linea di scrittura» o «verso»; quando dicevano EXARARE, PERARARE per «scrivere» o VOMER per «penna», stavano usando una metafora, ma una metafora del tipo threat, king o consider che segnalava Borges. Se noi diciamo «mi piacciono i tuoi versi», non pensiamo alla parola versi come a una metafora, non la sentiamo più come tale, è una metafora morta.

2. Il luogo della metafora

Lakoff e Johnson [Lakoff 1998: 41] e [Lakoff e Johnson 1998: 21] hanno insistito sul fatto che la metafora è stata considerata, nelle teorie linguistiche classiche, un problema di linguaggio, e non di pensiero. Di conseguenza le espressioni metaforiche venivano considerate in alternativa al linguaggio ordinario. Le metafore, in queste teorie, farebbero soltanto uso di meccanismi estranei al linguaggio quotidiano convenzionale. Il termine «metafora» veniva riferito ad un’espressione linguistica letteraria o poetica, in cui una o più parole che appartengono a un certo concetto vengono usate al di fuori del loro uso convenzionale per esprimere un concetto simile. La metafora, invece, per Lakoff e Johnson è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano, e anche nel pensiero e nell’azione. Il luogo della metafora non è affatto il linguaggio, ma il modo in cui concettualizziamo un dominio mentale nei termini di un altro [Lakoff 1998: 42]. Il nostro comune sistema concettuale, in base al quale pensiamo e agiamo, è essenzialmente di natura metaforica [Lakoff-Johnson 1998: 21]. Dal momento che la comunicazione è basata sullo stesso sistema concettuale che regola il nostro pensiero e la nostra azione, il linguaggio costituisce un’importante fonte per determinare come è fatto questo sistema [Ibid. 22].

La tesi fondamentale della semantica cognitiva, come ha osservato Violi [1997: 165], è quella che riguarda il nesso fra comprensione e significato: descrivere il significato vuol dire descrivere il modo in cui comprendiamo le espressioni linguistiche. Semantica e comprensione sono due denominazioni dello stesso problema. La semantica cognitiva cerca di descrivere i significati in quanto contenuti cognitivi, ciò che una mente umana conosce quando comprende un’espressione linguistica. In questo modo , conclude Violi, lo studio dei significati viene integrato nello studio dei processi mentali attraverso cui questi contenuti vengono costruiti [ibid.]. Con questa tesi si produce uno spostamento nel modo di pensare il significato. La scomposizione classica basata su condizioni necessarie e sufficenti viene sostituita dal ricorso a strutture cognitive (concettuali o percettive) come i prototipi, frames, le scene fillmoriane [Violi 1997: 167]. La Frame Semantics di Fillmore parte dall’idea che la conoscenza è strutturata sulla base di insiemi organizzati di concetti collegati fra loro in modo sistematico: gli schemi o frame [Violi 2001: 282]. L’ipotesi di base di Fillmore, nella traduzione di Violi [2001: 283], sarebbe che «particolari termini, espressioni o scelte grammaticali, siano associate nella memoria con particolari frame, in modo tale che la presenza della forma linguistica in un contesto appropriato attiva, nella mente del ricevente, un determinato frame, il quale a sua volta apre l’accesso ad altro materiale linguistico associato allo stesso frame». Fillmore separa nella sua semantica il livello linguistico lessicale (frame) da quello soggiacente della scena, di natura concettuale e riferito alla nostra esperienza del mondo. La scena comprende esperienze, azioni, oggetti, percezioni del mondo nonché la loro memorizzazione [ibid.]. La teoria semantica deve descrivere, sostiene Violi [ibid.], le relazioni fra i vari termini che costituiscono un determinato frame linguistico, proiettandolo sullo sfondo della scena a cui essi si riferiscono, scena che potrebbe essere descritta in un’altra lingua attraverso una differente griglia linguistica.

Il tipo concettuale della metafora agricola della scrittura si basa su un fatto percettivo piuttosto saliente. De Bartholomaeis [1928: 71] aveva notato le espressioni arare in ceram, arare campum cereum usate dai comici romani, Quintiliano e Prudenzio per «scrivere». La scrittura bustrofida con lo stilo su tavolette cerate è la metafora in atto. Lo stilo incide la cera come l’aratro incide un campo. Il concetto di «scrivere» è espresso in alcune lingue con radici che significano «incidere». Il latino SCRIBERE è proprio «incidere, incidere con una punta aguzza», donde «scrivere», e risale a una radice indoeuropea *skeribh-, da *sker- «tagliare» [IEW 946], in greco skariphos per «stilo per scrivere o disegnare». Il greco graphô, in origine «graffiare» (<IE *gerebh- «graffiare», tedesco Kerbe, nel senso di «incisione», [IEW 392], così nella Iliade (17, 599) aigchmê— grápsen oi ostéon áxris poi «fare segni o marche per scrivere o disegnare», Iliade (6, 169) (sêmata) en pínaki, donde «scrivere». L’inglese write «scrivere» (< IE *urei-, *uri-) si può ricondurre a una radice indoeuropea*uer- «strappare, lacerare, scalfire, graffiare» [IEW 1163], anglosassone writan «incidiere, graffiare, scrivere, dipingere», greco rhinê «lima», tedesco reissen. L’origine della scrittura nelle culture indoeuropee insiste sull’impiego di stecchi di legno speciali per fare segni o incidere il legno o materiale fatto di legno. Il nome del faggio, *(s)krobho-, in certe lingue indoeuropee deriva chiaramente da * (s)krebh- «graffiare, raschiare» > gr. graphô: russo grab, grabina, ceco habr , hrabr, polaccco grab, serbo-croato grab, grèbar, antico prussiano wosi-grabis, lituano Gruobynas, umbro Grabouio-, epiteto di tre divinitý umbre; a riprova del fatto che l’albero veniva usato in tempi remoti per fare segni grafici [Gamkrelidze-Ivanov 1995: 536].

La metafora non si perde quando il materiale di supporto della scrittura smette di essere la cera. Un termine particolare, abbiamo detto sopra, può essere associato nella memoria a particolari frame e, nel contesto appropriato, attivare nella mente un determinato frame, il quale a sua volta apre l’accesso ad altro materiale linguistico associato allo stesso frame. Il solco è una linea retta come la riga della scrittura o il verso della poesia. La radice indoeuropea *steigh- «camminare, salire» continua nel greco steichô «avanzare in linea», stichaô «essere allineato» (alberi), *stix, genitivo stichos «fila» (di combattenti, animali, cose), «riga», stoichos «fila», stichos designava in un primo momento la fila o linea di soldati, alberi, ciffre o le celle di un alveare, poi la linea della scrittura e il verso in poesia, donde i termini letterari distico «strofa di due versi», emistichio «la metà di un verso». Le lingue germaniche attivano un altro frame, tedesco steigen «salire» (=greco steichô), antico alto tedesco stig «sentiero, scalino», gotico staiga «sentiero, strada»; in antico slavo ecclesiastico stigno «io vengo», stigna «via, strada». Qui si può ricordare un enigma anglosassone, metafora della strada e lo scrivere: la penna con punta d’oro, il calamaio e le tre dita che scrivono [Santáno Moreno e Birtwistle 1992: 172-173]:

Io vidi quattro mirabili esseri
viaggiare insieme: scure erano le loro tracce,
le impronte nerissime. Era veloce nel viaggio,
più forte degli uccelli; colei che si libra nell’aria
si tuffò sotto l’onda. Indefesso lavorava
il lottante guerriero che indicava il cammino
a tutti e quattro sopra lo spesso oro

[tr. it. Rajna 1928: 309]

La radice *reg- indicava un movimento in linea retta. I derivati hanno significati diversi a seconda dell’idea messa in evidenza. L’idea di «movimento, estensione» si trova nel greco oregô «tendere, estendere», orguia; l’idea di «linea retta» in sanscrito rjú- «retto», ráji- «linea, fila», avestico erezu «retto, dritto», rastem «in linea retta», latino rego «dirigire in linea retta», rectus, regio «direzione (in linea retta), linea retta», gotico raíhts, antico islandese rettr, anglosassone riht, antico alto tedesco reht «retto, dritto», medio basso tedesco reke «fila, ordine»; donde nelle lingue germaniche, anglosassone racu «letto di un fiume», inglese rake «strada, solco, rotaia», norvegese dialettale raak «traccia; solco; fila» [IEW 855-856].

L’indoeuropeo *prka «solco», dalla radice *perk-, *prk- «strappare, lacerare, alzare scavando, scavare, graffiare», continua nel latino porca «spazio di terra rialzata tra solco e solco», tedesco Furche «solco», inglese furrow «solco», gallese rhych «solco», antico bretone rec «solco», gallico rica «solco» [IEW 821]; dal gallico il termine è entrato nelle parlate galloromanze, francese raie, antico provenzale rega, con il senso di «solco», ma il francese raie si usa soprattutto nel senso di «linea tracciata su una superficie» [FEW X 386-395].

Il latino REGULA (<IE *reg-) è entrato nell’olandese regel nel senso di «fila», dopo «linea retta», e richel «canale di scarico nella stalla», donde il francese rigole «canale d’irrigazione, gora, solco poco profondo per piantare» [FEW XVI 686-687]. In Italia, REGULA si trova in qualche toponimo come Reglia «linea di confine» (Valdichiana, AR) e anche come «gora, canale» [Pellegrini 1990: 198].

La radice indoeuropea rei- porta il senso di «graffiare, rompere, tagliare» [IEW 857]; continua nel latino rima «spaccatura, crepa, fessura», anglosassone raw, ræw «fila» (<*roi-ua), inglese row «fila, riga, linea», lettone riêwa «crepa, solco», irlandese medio roen «strada». La stessa radice con diversi allungamenti, reip-: latino ripa «riva di fiume», frisone riffel «solco»; reis-, svedese rista «tagliare, graffiare, scalfire», antico svedese rista «scalfire (rune)», antico islandese ristill «vomere», medio alto tedesco rist «vomere, manico dell’aratro»; reik-, sanscrito rekha, lekha «spacco, fessura, rottura, riga, linea», gallese rhwyg «rottura, spaccatura, fenditura, fessura», medio alto tedesco rihe «linea», tedesco Reihe «fila», anche antico alto tedesco riga «linea, riga», medio alto tedesco rige «linea, fila, canale d’irrigazione artificiale», tedesco Riege «squadra, sezione», norvegese reig «fila, riga», lituano riekiù, riekti «arare (un campo) per la prima volta». L’italiano riga, di origine germanica (<*reik-), nei dialetti può prendere il senso di «solco» [AIS VII 1418n], «canale d’irrigazione» [AIS VII 1426] a Nocera (Umbria) i rigacce [566], Montefiascone (Lazio) la riga [612], «zanella» a Pozzale (Friuli) reá [317], in sardo, Ósilo riga «solco delle ruote del carro» [DES II 359], friulano ri(j)e, irpino, siciliano ria, abruzzese riga «gora» [Faré 1972: 7311].

Il principio associativo sul quale si fondano i frame è quello della contiguità tra le cose e le azioni che coesistono nella realtà (parte/tutto, vicinanza spaziale e/o temporale, causa-effetto, ecc.); la salienza più o meno spiccata degli elementi di un dato frame produce degli effetti «figura-sfondo» così come si riflettono nelle metonimie [Blank 1997: 93] e [Koch 1997: 226]. Concetti quali «spaccatura, crepa», «solco, canale, strada», «linea, riga, fila», del nostro ultimo esempio, presentano un rapporto di contiguità che possiamo considerare particolarmente saliente e costante. Il caso prototipico per la nostra cognizione è un fatto percettivo molto saliente, quello di linea retta. I concetti «graffiare, rompere, tagliare» spesso attivano un frame, che a sua volta apre l’accesso ad altro materiale linguistico associato allo stesso frame. Proiettando il ragionamento su un grafico:


Gli stessi concetti di «graffiare, tagliare, incidere», abbiamo visto sopra, erano all’origine delle radici indoeuropee per «scrivere» (cf. antico svedese rista (<*reis-) «scalfire (rune)»). Altri concetti come «camminare» (IE *steigh- > gr. stíchos, germ. stig, staiga, slav. stigna) possono attivare lo stesso frame:


Oppure «movimento in linea retta» (IE *reg- > sanscrito rjú-, ráji-, lat. rego, rectus, regio, regula, germ. raíhts, reke, racu, rake, raak):


Il nostro apparato cognitivo, però, sembra incline a reinterpretare la metonimia come una metafora che implica una similarità concettuale [Koch 1997: 234]. La metafora che fa diventare il solco una riga di scrittura o un verso in poesia, è basata su un’immagine. La differenza tra una metafora basata su un’immagine e la metafora concettuale del tipo la discussione è una guerra, l’amore è un viaggio, il tempo è denaro, che studiano Lakoff e Johnson [1998], è che quest’ultima mappa un dominio concettuale su un altro dominio concettuale. Le metafore basate sulle immagini, invece, mappano semplicemente un’immagine su un’altra immagine. Le mappature metaforiche costruite su un’immagine funzionano nello stesso modo delle altre mappature: cioè attraverso la mappatura della struttura di un dominio sulla struttura di un altro. I domini in questo caso sono costituiti da immagini mentali convenzionali [Lakoff 1998: 84]. L’immagine della riga di scrittura o il verso in poesia si sovrappone sull’immagine del solco, l’immagine dell’atto di scrivere sull’immagine dell’atto di arare un campo. Questo è possibile perché le metafore costituite da un’immagine preservano la struttura schematica dell’immagine, ogni mappatura preserva la struttura dell’immagine schema, quella del dominio di partenza e quella del dominio di arrivo [Lakoff 1998: 87]. Questo porta al cosiddetto Principio di Invarianza: «Le mappature metaforiche conservano la tipologia cognitiva (cioè la struttura delle immagini schematiche) del dominio di partenza, in modo da costituire la struttura intrinseca del dominio di arrivo» [Lakoff 1998: 61]. Non si coglie prima, quindi, l’intera struttura dell’immagine schematica del dominio di partenza, il solco o l’arare, e la si riproduce sul dominio di arrivo, la riga di scrittura, il verso o lo scrivere. Entrambe le strutture vengono conservate e questo rende possibile la metafora, cioè



3. I giardini di Adone

I greci chiamavano il giardino di Adone (Adônidos kêpos) il modo in cui in piena estate si seminavano e si facevano crescere in otto giorni semi in recipienti artificiali (una bacinella, canestri, conchiglie), che poi morivano rapidamente senza dar frutto. I giardini di Adone simboleggiavano la morte in giovane età di Adone, amato da Afrodite [Reale 1997: 190, 196]. All’epoca di Platone si stava giungendo al termine una rivoluzione culturale con il sopravvento della scrittura, il cui affermarsi era iniziato già nel secolo V a.C. Platone prende posizione a favore dell’oralità [ibid. 97]. Platone narra nel Fedro (247 B-278 E) una finta favola egiziana: Theuth presentò al re d’Egitto Thamus l’arte della scrittura, elogiandola come un farmaco della memoria e della sapienza. Ma il re Thamus criticò la scrittura, perché essa potrà aiutare a ricordare solo dal di fuori e non dal di dentro [Reale 1997: 19]. Lo scritto, dice Socrate nel dialogo di Platone, è come il giardino di Adone:

«Ora, dimmi un po’ questo: l’agricoltore che ha senno, farà seminando d’estate nei «giardini di Adone» i semi che gli stanno a cuore e dai quali vuole che nascano frutti, e si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, o lo farà per gioco e a motivo della festa, se pure lo farà? Invece, i semi dei quali si preoccupa sul serio li seminerà in luogo adatto, seguendo tutte le regole dell’arte dell’agricoltura, contento che quanti ne ha seminati giungano al loro termine in otto mesi?»

Fedro si mostra d’accordo con Socrate, e il dialogo continua:

«SOCRATE - E allora, se vorrà fare sul serio, non le scriverà sull’acqua nera, seminandole mediante la cannuccia da scrivere, facendo discorsi che non sono capaci di difendersi da soli col ragionamento, e che non sono nemmeno capaci di insegnare la verità in modo adeguato.

FEDRO - No, almeno non è verosimile.

SOCRATE - No, infatti. Ma i giardini di scritture li seminerà e li scriverà per gioco, quando li scriverà, accumulando materiale per richiamare alla memoria per se medesimo, per quando giunga alla vecchiaia che porta all’oblio, se mai giunga, e per chiunque segua la medesima traccia, e gioirà di vederli crescere freschi.»

Lo scritto è un gioco nei confronti dell’oralità, lo scritto è come il giardino di Adone, il gioco che si fa per festeggiare Adone, i semi che nascono senza dare alcun frutto. La metafora platonica della scrittura, nel momento che stava imponendose la scrittura a danno dell’oralità, è la metafora agricola della scrittura: speírôn dia kalámou («seminandole mediante la cannuccia da scrivere»), e gli Adônidos kêpoi («giardini di Adone») diventano en grámmasi kêpoi («giardini di scritture»).


Bibliografia


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    Il senso di una semantica dei prototipi e dei frames: osservazioni decostruttive e ricostruttive, in Linguaggio e cognizione, Atti del XXVIII Congresso della Società di Linguistica Italiana, Roma, pp. 89-103.


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    L’invenzione della poesia. Le lezioni americane, Milano.


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  5. De Bartholomaeis, V.
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    Ciò che veramente sia l’antichissima «cantilena» «Boves se pareba», in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XC, pp. 197-204.


  6. De Bartholomaeis, V.
    1928
    Poscritta a «Boves se pareba», in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XCI, pp. 67-76.


  7. Du Cange
    1994
    Glossarium mediae et infimae latinitatis, 10 voll., Graz (ristampa dell’edizione di 1883-1887).


  8. Faré, P. A.
    1972
    Postille italiane al «Romanisches etymologisches Wörterbuch» di W. Meyer-Lübke comprendenti le «Postille italiane e ladine» di Carlo Salvioni, Milano.


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    Indo-European and the Indo-Europeans, Berlin-New York.

  11. IEW vid. Pokorny, J.


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    1928-1940
    Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen.


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    1997
    La diacronia quale campo empirico della semantica cognitiva, in Linguaggio e cognizione, Atti del XXVIII Congresso della Società di Linguistica Italiana, Roma, pp. 225-246.


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  16. Machado, A.
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    Poesie, a cura di O. Macrì, Milano.


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    PoesÌa y prosa. PoesÌas completas, II a cura di O. Macrì, Madrid.


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    Myricae, a cura di G. Nava, Firenze.


  20. Pellegrini, G. B.
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  21. Pokorny, J.
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    Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, 2voll., Tübingen-Basel.

  22. Rajna, P.
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    Un indovinello volgare scritto alla fine del secolo VIII o al principio del IX, in «Speculum», III, pp. 291-313.


  23. Reale, G.
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    Le origini e il Duecento, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano.


  25. Santano Moreno, B. ‚ Birtwistle, A. R.
    1992
    Enigmas anglosajones del Codex Exoniensis (edición bilingüe), Cáceres.


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    Può la semantica non essere cognitiva? in Linguaggio e cognizione, Atti del XXVIII Congresso della Società di Linguistica Italiana, Roma, pp. 161-170.


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  28. Wagner, M. L.
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    Dizionario etimologico sardo, 3voll., Heidelberg.


  29. Wartburg, W. von
    1922-
    Französisches Etymologisches Wörterbuch, Basel.


INTERVENTI