dicembre
2003



Anatole Pierre Fuksas

SELEZIONISMO E CONJOINTURE
Data d'immissione:
Gennaio 2003

1. Prototipi finalistici

I vari approcci sviluppati nell’ambito della narratologia nel corso del ventesimo secolo hanno determinato il consolidamento di un punto di vista logico-simbolico sul racconto e il discorso narrativo in genere. Al successo di questo indirizzo hanno contribuito innanzitutto le ricerche della scuola formalista, quindi quelle ispirate al metodo strutturalista, sostanzialmente improntate all’identificazione delle regolarità grammaticali del racconto.

Sul modello capitale della morfologia della fiaba di Propp [1928], nella seconda metà degli anni sessanta soprattutto Greimas [1966 e 1970], Bremond [1966] e Todorov [1966 e 1968] hanno elaborato vari modelli di grammatica della narrazione, identificando, ognuno a suo modo, gli elementi minimi del racconto e le leggi che ne regolano la combinazione in sequenze complesse e sistemi compiuti [cfr. Segre 1974]. A queste indagini di carattere semiologico, linguistico e letterario hanno fatto seguito negli anni settanta varie ricerche narratologiche maturate nell’ambito delle scienze cognitive, con contributi talvolta improntati alla medesima matrice formalista.

In particolare quelli di D. E. Rumelhart [1975 e 1977], che sviluppava una sistemazione cognitivista della morfologia di Propp, riconducendo le strutture narrative ai meccanismi di problem-solving identificati da Newell e Simon [1972]. Ne risultava una grammatica del racconto imperniata su processi deduttivi, corrispondenti ad una serie di regole di produzione, combinazione, riassunto e sommarizzazione, intese ad illustrare i processi elementari di comprensione delle storie. Nello stesso periodo Thorndyke [1977] e Mandler-Johnson [1977] sviluppavano ricerche improntate al medesimo paradigma grammaticale, che avrebbero trovato riscontro in una grande quantità di indagini sperimentali nel campo della psicologia dell’età evolutiva [cfr. Levorato 1986: 267-318].

I modelli di impianto grammaticale prevedono processi generativi di carattere top-down, dunque concepiscono il racconto come l’effetto di meccanismi deduttivi che conducono da un bisogno ad una meta attraverso un processo di soluzione variamente articolabile. Le unità di cui la storia si compone sono collegate da relazioni semantiche di livello superiore, quello dell’elaborazione simbolica, rispecchiate al livello più “basso”, quello linguistico, da meccanismi d’inferenza di carattere sintattico. In sostanza, si tratta di approcci istruzionistici che riconducono i processi narrativi ai principi della logica proposizionale e del calcolo dei predicati. Dunque descrivono il racconto come una catena logica di elementi discreti, classificabili secondo categorie astratte, che conduce da un bisogno ad una meta attraverso una serie di passaggi intermedi collegati da vincoli causali.

Secondo un punto di vista concorrenziale, soprattutto sviluppato da Schank [1975 e 1990] e Abelson [1975], quindi in collaborazione dai due autori [1977 e 1995], l’organizzazione dei processi narrativi dipenderebbe invece da collegamenti induttivi di tipo bottom-up. Questa prospettiva inquadra il racconto come una sequenza di scripts organizzati secondo un ordine seriale di tipo causale allo scopo di elaborare dei plans allo scopo di raggiungere dei goals, quindi delle mete, dei fini, degli obiettivi. In sostanza, scripts e plans rappresentano modelli astratti di organizzazione dell’esperienza e della memoria episodica attivati e associati secondo meccanismi analogici, dunque senza il ricorso ad una grammatica, ovvero ad un livello superiore dell’architettura cognitiva.

Anche Wendy Lehnert adotta un modello bottom-up, attribuendo un ruolo cardinale alle reazioni emotive nel quadro dell'elaborazione del plot di una storia, ovvero assumendo gli stati affettivi come elementi strutturanti del racconto [Lehnert 1982]. Secondo la Lehnert, le regole di sommarizzazione che supportano la memorizzazione sono basate su stati positivi, neutri o negativi, collegati da quattro agenti causali, motivazione, attualizzazione, conclusione ed equivalenza. La combinazione di stati e agenti causali dà luogo a 15 possibili unità del racconto, alcune delle quali, quelle che comportano inferenza rispetto ad altre unità, sono maggiormente suscettibili di essere contemplate dalle strategie di sommarizzazione. Un approccio bottom-up è stato proposto anche da Wilensky, teorico degli «story points», dove i points di una storia sarebbero «what the story seems to be about» [Wilensky 1982: 352]. In sostanza, Wilensky identifica un modello gerachico che ha in cima gli story points, più in basso gli eventi correlati, più in basso ancora gli eventi correlati ad altri eventi, infine il linguaggio, che incorpora eventi e points in un sistema discorsivo. Wilenski [19822, 1983] critica apertamente gli approcci grammaticali e distingue il suo modello da una story grammar in ordine a due principali argomenti. Innanzitutto i points di una storia sono idiosincratici per definizione, anche se molti sono sufficientemente pervasivi da far pensare che la stessa point structure possa ritrovarsi in diversi testi. Poi, la nozione di storyness non ha a che fare con la forma di una storia, ma col suo contenuto.

Un terzo e distinto approccio al discorso narrativo inteso come un network di relazioni causali tra eventi codificati in termini di informazioni è stato elaborato e rielaborato a più riprese nell’ultimo ventennio da Trabasso e dal suo gruppo di ricerca [in part. Trabasso - Secco - van den Broek 1984, Trabasso 1989]. Secondo questo punto di vista, centrato sulla coesione interna del discorso narrativo, gli episodi di una storia che siano collegati da relazioni causali denotano aspetti di forte co-dipendenza reciproca in ordine a vicissitudini organizzative di carattere logico [Trabasso - van den Broek - Suh 1989]. L’importanza degli eventi di una storia, dunque la loro memorabilità e la loro rievocazione nell’ambito di sommarizzazioni riassuntive, aumenta in funzione delle connessioni causali che lo collegano ad altri episodi dello stesso racconto [Trabasso - Sperry 1985]. Le relazioni causali tra gli eventi non sono riconducibili tout-court alle gerarchie di scopi del racconto e concorrono con esse a determinare la struttura di problem solving del discorso narrativo [Trabasso - van den Broek 1985, van den Broek - Trabasso 1986].

Questo punto di vista circa l’organizzazione del discorso narrativo e la coesione interna del racconto si distingue da quello grammaticale in ordine al fatto che gli episodi corrispondono effettivamente ad unità simboliche determinate (settings, events, reactions, goals, attempts, outcomes), ma non già ai costituenti di uno schema, né di un qualsiasi sistema di produzione di carattere generativo. Piuttosto configurano relazioni categoriali di natura concettuale, intese a determinare un’architettura di connessioni reticolari e transitive in funzione di piani, e azioni caratterizzate da intenzionalità [Trabasso - Stein - Rodkin - Munger - Baughn 1992]. Allo stesso tempo, l’idea che il discorso narrativo configuri un network di relazioni causali ricorsive si distingue dagli approcci analogici di tipo bottom-up soprattutto in ordine al fatto che presuppone meccanismi associativi di carattere reticolare, transitivo, ricorsivo tra gli episodi del racconto, piuttosto che l’organizzazione sequenziale di eventi in scripts, catene lineari, ovvero sequenze orientate in funzione di precisi piani e finalità.

Fatta la tara alle varie ed evidenti differenze che li distinguono in modo anche radicale, i punti di vista più accreditati nell’ambito della narratologia cognitiva denotano una comune matrice ispirativa nei termini in cui tutti identificano i meccanismi di produzione, comprensione e riproduzione del racconto con sistemi inferenziali di elaborazione di informazioni codificabili ad un livello logico-simbolico. Dunque contemplano l’identificazione di universali del discorso narrativo, ipotizzando che i processi mentali di elaborazione del racconto corrispondano ad un meccanismo di trasformazione di simboli secondo peculiari assiomi o regole d’inferenza guidate da strategie di problem-solving.

Una conferma indiretta del paradigma istruzionistico improntato all’elaborazione di informazioni secondo assiomi d’inferenza di carattere logico simbolico parrebbe apparentemente ricavabile dai più disparati interventi di narratologia cognitiva applicata al testo letterario, recentemente recensiti da Herman [2001], che fa il punto sulla Narratology as a cognitive science. La Logique du récit di cui parlava Bremond [1973] si dimostra tuttora al centro della significativa proliferazione di ricerche letterarie scaturite dall’incontro tra semiotica, linguistica testuale e scienze cognitive. Lo stesso Herman individua il «target for future research» nella story logic, da cui il titolo del suo più recente lavoro [2002].

Sennonché, se l’attenzione dei letterati è ancora rivolta in larghissima misura all’identificazione dei procedimenti inferenziali di carattere logico che determinano l’organizzazione causale, seriale, sequenziale del discorso narrativo, ciò dipende dal fatto ché essi si interessano al racconto quale «prodotto finito» dei processi di associazione episodica. Data questa premessa, è piuttosto naturale che questo genere di approcci letterari delinei tendenzialmente un modello finalistico del racconto quale combinatoria di partizioni regolari, corrispondenti ad unità simboliche codificabili a livello logico-formale, collegate da vincoli causali che riflettono le istruzioni di una sintassi narrativa universale.

In realtà, alcune evidenze di carattere storico-documentario, relative alla tradizione manoscritta del romanzo medievale, suggeriscono fondati dubbi circa l’effettiva pertinenza delle presunte unità minime di una sintassi narrativa, sulla plausibilità di una categorizzazione universale delle funzioni del racconto e, ancor più, della loro corrispondenza con l’organizzazione episodica del romanzo. Ugualmente, sollevano pesanti interrogativi circa la natura inferenziale e istruzionistica dei processi cognitivi che caratterizzano l’elaborazione del discorso narrativo, ovvero sulla possibilità che riflettano il trattamento sequenziale di informazioni codificate secondo gli assiomi della logica proposizionale e del calcolo dei predicati.

Le risposte a questi dubbi, a questi interrogativi, concorreranno a delineare i margini di un diverso inquadramento selezionistico dei processi cognitivi di categorizzazione episodica del discorso narrativo, delle vicissitudini adattive che determinano la variabilità editoriale del romanzo attraverso la sua tradizione e, più in generale, della funzione evolutiva del genere.

2. Elaborazione connettiva

Daniel Poirion [1981: 118] constatava che «auctoritas, translatio, conjointure sont les trois principaux modes d’insertion de la culture dans l’écriture au Moyen Age». Proiettato sul piano testuale, il primo di questi tre paradigmi culturali chiama certamente in causa il rapporto tra autore, romanzo e materia narrativa e, in particolare, la credibilità e la presumibile pre-esistenza di quest’ultima ad ogni operazione autoriale, spesso dichiarata secondo i parametri topici del «manoscritto ritrovato» [Chaytor 1945: 123]. La seconda determina un «set of creative possibilities» largamente e variamente distribuite nella tradizione romanzesca medievale [Uitti 1972-1973: 88-93], che trova anche riscontro in una peculiare concezione della traduzione del romanzo quale adattamento del testo fonte alle intenzioni espressive che la motivano [Pickens 1975: 249, Freeman 1979: 33-44]. La seconda determina un «set of creative possibilities» largamente e variamente distribuite nella tradizione romanzesca medievale [Uitti 1972-1973: 88-93], che trova anche riscontro in una peculiare concezione della traduzione del romanzo quale adattamento del testo fonte alle intenzioni espressive che la motivano [Pickens 1975: 249, Freeman 1979: 33-44], verosimilmente analoga a quella denunciata nel prologo del Roman de Troie [Zaganelli 2000:549].

La collaborazione tra queste due strategie organizzative è espressamente delineata da Chrétien de Troyes nel prologo del Cligès (vv. 1-44):

Cil qui fist D’Erec et d’Enide
Et Les comendemanz d’Ovide
Et L’art d’amors au romans mist
Et Le mors de l’espaule fist,
Del roi Marc et d’Ysalt la blonde
Et De la hupe et de l’aronde
Et Del rossignol la muance,
Un novel conte recomance
D’un vaslet qui an Grece fu
Del linage le roi Artu.
Mes ainz que de lui rien vos die,
Orroiz de son pere la vie,
Dom il fu e de quel linage.
Tant fu prenz et de fier corage
Que por pris et por los conquerre
Ala de Grece an Engleterre,
Qui lors esteit Bretaigne dite.
Ceste estoire trovons escrite,
Que conter vos vuel retraire,
En un des livres de l’aumaire
Mon seignor saint pere a Biauvez.
De la fu li contes estrez
Don cest romans fist Chrestiens.
Li livres est molt ancëens
Qui tesmoigne l’estoire a voire;
Por ce fet ele mialz a croire.
Par les livre que nos avons
Les fez del anciens savons
Et del segle qui fu jadis.
Ce nos ont nostre livre apris
Qu’an Grece ot chevalerie
La premier los et de clergie.
Pus vint chevalerie a Rome
Et de la clergie la some,
Qui or est an france venue.
Dex doint quele i soit retenue,
Et que li leus l’abelisse
Tant que ja mes de France n’isse
L’enors qui s’i est arestee.
Dex l’avoit as altres prestee,
Car de Grezois ne de Romains
Ne dit an mes ne plus ne mains:
D’ax est la parole remese
Et estainte la vive brese

[Gregory-Luttrell 1993: 1].

Il riferimento all’auctoritas comporta qui l’analitica presentazione bibliografica dell’autore (vv. 1-10), l’evocazione del presunto testo-fonte, del proprietario del libro che lo contiene, della sua provenienza e della sua veridicità (vv. 18-29). Al valore autoritativo «esterno» dell’autore e della sua fonte fa riscontro quello «interno» relativo alla gerarchia narrativa degli episodi: la storia di Cligès sarà preceduta da quella del padre, dunque dall’illustrazione genealogica del lignaggio, con funzione introduttiva, ma anche esemplare (vv. 7-18) [Ryding 1971: 112-114, Pickens 1975: 258-260]. La translatio è formulata con la massima evidenza teorica nella rievocazione del passaggio di chevalerie e clergie [Jongkees 1967, Lyons 1980-1981, Köhler 1976: 325-326 e Uitti 1994: 547] dalla Grece in France attraverso Rome (vv. 30-44). Il dato storiografico universale, filogenetico, è ricapitolato da quello ontogenetico del trasferimento del padre di Cligès dalla Grecia in Britannia, alla ricerca di pregio ed onori. Ma anche, verosimilmente, da quello letterario, considerato che il conte estratto dal livre di Saint Pere a Biauvez approda alla veste del romans, dunque alla lingua della nuova dimora di clergie [Freeman 1979: 67-68].

Seguendo l'itinerario della chemise ovree sur l'aique de Tamise e per haute mer portee en Frise al re Filippo, Gioia Zaganelli [1998] ha individuato una trama di relazioni testuali che dal Cligès rimanda all'Alexandre decasillabico e da questo alla chemise di Isotta, depechiee nell'episodio-chiave della vicenda tristaniana, che proprio nel prologo del Cligès Chrétien dichiara apertamente d'aver praticato. Già Valeria Bertolucci [1960: 21-22] aveva notato che il nome di Alexandre rappresenta un riferimento implicito al personaggio storico, anche corredato da continui moniti e riferimenti alla largesce, anche considerato che nell'Erec Alessandro Magno è tratto ad esempio di munificenza e rappresenta «il tipo liberale per antonomasia». L'argomento, anche ripreso di recente da Simonetta Bianchini [2002: 181] nel suo studio sull'interpretatio nominis e la pronominatio nel Cligès, trova anche un più generale inquadramento nel ragionamento di Trachsler [2000: 20-31 e 59-78] su «le nom propre comme marqueur d'une matière» e «l'homonimie». Proprio notando «l'infinita attenzione del romanziere per i nomi dei suoi protagonisti e la sapienza etimologica con la quale li rende significanti», la Zaganelli [909] conferma il «legame intenzionale che il romanziere ha inteso stabilire tra il suo Alixandre e il grande Alessandro», tra il padre di Cligès e il massimo esempio di condottiero e sovrano dell'antichità. Alla luce di questo argomento spiega il prologo del Cligès, dove «la translatio di cui in esso è questione è infatti, almeno in parte, attuata proprio dalla sequenza che si viene a stabilire tra Alessandro Magno, Alixandre e Cligès e quindi dal tragitto che dalla Grecia ci porta verso la Bretagna di Artù».

In ordine a queste considerazioni si potrà osservare che l'applicazione della translatio nel Cligès chiama anche in causa il terzo dei paradigmi culturali segnalati da Poirion. In particolare, si direbbe che per via dell'indiretto tramite del nome proprio connesso a quello esplicito del trasferimento geografico Chrétien colleghi qui la saga alessandrina a quella arturiana, stabilendo una conjointure attualizzante tra la materia antica e il ciclo bretone. D'altra parte, Michelle Freeman [1979: 67-68] ha sottolineato come: «Thanks to conjointure, things which are normally considered to exist in a disjointed fashion may become meaningfully simultaneous. For example, the reader may be made aware of the past, the present, and an impetus for future development all at the same time». Come notava Bachtin [1938-1941/1975; tr. it. 1979: 457] a proposito delle costanti del genere attraverso la sua storia, anche dove il romanzo sia ambientato nel passato, comporta inevitabilmente un’attenzione istituzionale al presente, ma anche una prospettiva previsionale sugli eventi futuri.

Nel caso del Cligès si direbbe proprio che il principio della translatio rifletta quest’istanza di attualizzazione e sincronizzazione episodica, ma anche linguistica, appunto regolata un meccanismo sintetico di organizzazione connettiva, sostanzialmente identificabile col principio di conjointure che Chrétien chiama esplicitamente in causa nel prologo di Erec et Enide (vv. 1-25):

Li vilains dit an son respit
Que tel chose a l'an an despit,
Qui mout vaut miauz que l'an ne cuide.
Por ce fet bien qui son estuide
Atorne a san, quel que il l'et;
Car qui son estuide antrelet,
Tost i puet tel chose teisir,
Qui mout vandroit puis a pleisir.
Por ce dit Crestiiens de Troies,
Que reisons est que totes voies
Doit chascuns panser et antandre
A bien dire et a bien aprandre,
Et tret d'un conte d'avanture
Une mout bele conjointure,
Par qu'an puet prover et savoir
Que cil ne fet mie savoir,
Qui sa sciance n'abandone
Tant con Deus la grace l'an done.
D'Erec, le fil Lac, est li contes,
Que devant rois et devant contes
Depecier et corronpre suelent
Cil qui de conter vivre vuelent.
Des or comancerai l'estoire
Qui toz jorz mes iert an memoire
Tant con durra crestiantez;
De ce s'est Crestiiens vantez

[Foerster 1890: 1].

Tobler-Lommatzsch [1938: II 696] rendono l’espressione di Chrétien nel senso di «Anlaß», Godefroy [t. II, 1891-1902: 239] traduceva con «conclusion, consequence», mentre Förster [1890: 297-298] notava appunto che l’accezione di «Verbindung», ‘collegamento’ è, anche registrata dal FEW [von Wartburg 1946: 1053-1055], è già attestata per l’etimo latino JUNCTURA. W. A. Nitze [1913-1914: 487 e 1915-1917: 16, n. 1] interpretava l’espressione in senso strettamente grammaticale, rinviando ad un passo-chiave dell’Ars Poetica di Orazio (vv. 242-243) e riscontrando un’analoga accezione nella sezione dedicata al trivium della Chronique di Philippe Mousket (vv. 9704-9705):

Gramaire i fu painte première
Qui nos enseigne en quel manière
On doit escrire les figures
Et asambler les congointures

[Baron de Reiffenberg 1836: I 378].

A proposito del passo, Michelle Freeman [1979: 67-68] ha notato che l’inquadramento grammaticale della conjointure nella Chronique di Philippe Mousket va inteso secondo la concezione medievale della gramatica, che contempla accanto alla morfologia e alla sintassi della proposizionale anche quella più generale del testo, dunque la dispositio in ogni sua accezione. Questo punto di vista parrebbe per molti versi confermato dalle osservazioni di D. W. Robertson [1951: 684-686], che isolava un’accezione estensiva della junctura quale procedimento di organizzazione delle sequenze narrative in un passo piuttosto pertinente del De planctu Naturae di Alanus de Insulis:

Poetae aliquando historiales eventus joculationibus fabulosis, quasi quadam eleganti structura, confoederant, ut ex diversorum competenti junctura ipsius narrationis elegantior pictura resultet.

[Wright 1872: II 455-456].

Proiettandola sul prologo di Erec et Enide, ne ricavava che la mout bele conjointure estrapolata dal conte d’aventure collegherebbe secondo un ordine artificiale eventi disgiunti in natura, racchiudendo un «nucleo di verità» morale all’interno di una «corteccia» testuale esteticamente conveniente. Questo senso superiore, potenzialmente veicolato dalla materia, risulterebbe vanificato dalle versioni incomplete dei giullari, che frammentano e corrompono il testo al cospetto del loro nobile pubblico. Dunque Robertson identificava una contraddizione tra il valore intensivo della iunctura oraziana e quello certamente estensivo della medesima espressione nell’accezione di Alano, contemplata a suo giudizio nel prologo di Erec et Enide. Le reazioni critiche di Roques [1952: 551] di Nitze [1954: 180-181] mettevano in discussione a diverso titolo la pertinenza del ragionamento di Alano rispetto alla conjointure di Chrétien.

Illustrando altri passi dell’Ars Poetica (vv. 1-9, 42-48, 242-243), D. Kelly [1970: 182-184 in part.] s’interrogava sulla possibilità che già Orazio applicasse il concetto di iunctura a tutti i gradini della scala discorsiva. Indagando analiticamente la ricezione oraziana, notava che la glossa porfiriana corrispondente al verso 48 denota effettivamente un’accezione intensiva dell’espressione iunctura. Sennonché, l’annotazione dello pseudo-Acro relativa al verso 242 chiama in causa l’ordo rerum e la divisio operis, accanto all’ordo verborum, così come quella degli Scholia Vindobonensia distingue tra ordo verborum e iunctura sententiarum.

Quale che fosse l’accezione oraziana originaria, l’indagine di Kelly approda alla sensata conclusione che «the twelfth- and thirteenth-century arts of poetry use the term iunctura to designate disposition and linking on all levels of composition» [Kelly 1970: 185]. Questo punto d'approdo trova conferma in un recente lavoro di Claudia Villa [1996: 458-464 in part.], che isola altre glosse relative ad Ars Poetica 47-48 in cui la iunctura oraziana è intesa nel senso di collegamento, strutturazione, organizzazione di parti del discorso, inquadrando la ricezione del passo in uno scenario direttamente collegato all'affermazione della versificazione in volgare romanzo, segnatamente oitanico.

Dunque Kelly delinea una poetica della iunctura che approda alla pratica letteraria medievale del collegamento di laisses, branches, ambages, aventures [Kelly 1970: 188-189]. Queste componenti e sequenze narrative conosciute o percepite come distinte, certo anch’esse a loro volta internamente instabili, sono soggette a due diversi sistemi di conjointure, identificati nella Poetria Nova di Geoffroy de Vinsauf (vv. 242-262) come collatio aperta e subtilis. La prima rivela espressamente il nodo della iunctura, dove la seconda lo occulta, presentando le parti come continue piuttosto che contigue, quasi fossero collegate dalla natura piuttosto che dall’arte dell’autore.

Nella Summa de Arte Prosandi di Conradus de Mure, Kelly [190-191] rintraccia anche una distinzione tra materia remota e materia propinqua, ovvero tra materiali grezzi e raffinati, accanto a quella di matrice oraziana tra narratio simplex e multiplex, a seconda che il racconto contempli materia di argomento unico o plurimo. Per quanto l’opera di Corrado sia dedicata espressamente allo stile epistolare, entrambe le distinzioni si dimostrano estremamente pertinenti rispetto alla materia romanzesca e, in particolare, al prologo di Erec et Enide, ovvero alla natura del conte d’avanture che rappresenta la fonte dichiarata del romanzo.

Associandosi all’opinione di Loomis [1949: 84] circa l’unicità della fonte principale dell’Erec et Enide, Glyn Sheridan Burgess [1984: 11-13] nota che l’uso dell’articolo determinativo (un conte) scongiura l’ipotesi che il romanzo sia il risultato della combinazione di una varietà di motivi distinti. Addirittura si sbilancia ad individuare le caratteristiche di questo esemplare, un racconto biografico che doveva dedicare maggior enfasi all’azione e agli eventi che non alla coerenza narrativa, all’eleganza del linguaggio e al senso generale. Dunque Chrétien s’incaricherebbe di rimettere assieme un racconto unitario pre-esistente, spezzato e corrotto dai giullari, secondo un’accezione della conjointure strattamente imparentata con quella attestata dal ms. B (BnF, fr. 12457) del commento alla genesi di Evrat (vv. 11-15):

Cele forme, cele peinture,
Se Dex n'i meïst comjointure
Tel com l'aime qui la governe
Fust ausi come la lanterne
Ou il n'a clarté ne lumiere

[Boer: t. II, 609].

Citando il passo a proposito del prologo di Erec et Enide, G. S. Burgess [11, n. 3] nota che «metre conjointure à aucune rien is to provide a process by which a shapeless form is transmuted into an effective satisfying entity». Se la peinture riecheggia la «narrationis elegantior pictura» di Alano, che appunto risulta «ex diversorum competenti junctura», il narratore dà la forma al suo racconto collegandone le parti, così come il creatore estrae l’ordine dal caos, illuminando la peinture del cosmo. Certo, la dispositio autoriale della materia narrativa caotica mira a riprodurre articificialmente un ordine preventivo, sentito come più vicino a quello naturale dei fatti, provvidenzialisticamente partecipe di una concezione deterministica della storia, sigillata nelle sue finalità ultime dal disegno escatologico della bibbia.

Più cauto, Kelly [197] manteneva aperta la possibilità che «Chrétien may have used conte d’avanture as a generic form to cover the multifarious tales he refers to in verses 19-22», concludendo che una soluzione univoca del problema parrebbe impossibile, quanto, tutto sommato, irrilevante rispetto all’intento di determinare natura e modalità della conjointure di Chrétien. Quale che sia la fonte, univoca o molteplice, siamo comunque in presenza di una materia che diviene romanzo a seguito di una dispositio improntata a peculiari associazioni connettive di carattere analogico. Dunque «arrangement and linking of narrative elements are therefore the essential objects of composition; even amplification and abbreviation and ornamentation are subordinate to that process» [Kelly 1970: 200].

Di fatto, Chrétien dichiara di aver estratto una mout bele conjointure da un conte d’avanture evidentemente sentito come pre-esistente, esemplare se non antigrafico, dotato di una qualche consistenza testuale, più o meno completa, più o meno unitaria, comunque indipendente dalla veste in cui il nuovo romanzo di Erec et Enide lo presenterà. In sostanza, oppone dialetticamente, ancorché indirettamente, la sua opera dalla materia a cui s’ispira, dove il livre fornisce a Chrétien «nulla più che l'argomento, la storia, perché questo è il significato che il termine “conte” ha nel suo metalinguaggio letterario» [Zaganelli 2000: 552]. Dunque denota la chiara consapevolezza del fatto che il romanzo, il suo romanzo, non costituisce l’unica espressione testuale possibile della storia che si accinge a raccontare. Anzi, ne rappresenta una peculiare configurazione autoriale, effetto di un particolare procedimento di dispositio, improntato ad istanze congiuntive piuttosto che disgiuntive.

In questo senso, il prologo di Erec et Enide, come d’altra parte anche quello di Cligès [Freeman 1979: 24-37], tradisce l’aspirazione alla completezza, ad una forma compiuta del racconto, possibilmente stabile se non definitiva, sancita dalla sottoscrizione autoriale, dunque da un’assunzione giuridica di responsabilità. Ma anche, indirettamente, la consapevolezza del fatto che i collegamenti impliciti, potenziali, latenti, potranno esplicitarsi nelle successive attualizzazioni editoriali dello stesso conte, con effetti plausibilmente lesivi della sua restaurata unità, della sua completezza restituita.

3. Tradizione polimorfica

La reazione memoriale tra le competenze testuali chiamate in causa dal romanzo dà luogo ad un’architettura reticolare di associazioni connettive, di collegamenti tra partizioni variabili del racconto che può anche coinvolgere materiali estranei al testo antigrafico, comunque sentiti come congrui, attinenti. Questo processo di elaborazione trova riscontro nella fitta rete di interferenze tra i vari generi di materia narrativa attraverso i cicli narrativi dell'epica e del romanzo francese medievale, recentemente registrate da Trachsler [2000] tanto sui vari piani dell'organizzazione testuale delle singole opere quanto sul piano dell'assetto macrotestuale dei codici manoscritti che le contemplano. A livello autoriale comporta l’integrazione intra-testuale di una materia d’argomento unico o plurimo, di provenienza singola o molteplice, mentre su quello editoriale può dare luogo a meccanismi di amplificazione o di abreviatura, dimostrandosi spesso associato all’organizzazione di un sistema macro-testuale che contempla contestualmente tutti i materiali previsti in un progetto compilativo miscellaneo e sistematico.

Una fitta trama di indagini filologiche, soprattutto relative alla tradizione manoscritta dei secoli XII-XIII, va progressivamente illustrando il marcato polimorfismo del romanzo medievale in volgare oitanico, esperienza fondativa del genere, almeno dal punto di vista tassonomico [Roncaglia 1981, Segre 1984: 62-63]. La marcata variabilità è riscontrabile tanto sul livello dell’instabilità testuale del racconto, dunque del suo assetto interno, quanto su quello dell’inquadramento contestuale nel sistema editoriale del libro manoscritto.

I due aspetti si dimostrano tendenzialmente interdipendenti, nei termini in cui la disposizione interna del romanzo dialoga con quella generale del progetto compilativo di cui si trova ad essere parte. Il processo di riproduzione manoscritta comporta inevitabilmente la circuitazione memoriale della materia narrativa all’interno di un sistema di competenze testuali supportate dal ricorso a risorse bibliotecarie. Dunque il romanzo reagisce con altri testi, almeno quelli destinati ad essere rilegati nel medesimo libro manoscritto miscellaneo, che determina uno spazio di contatto mentale prima ancora che materiale, tra l’opera e altre opere.

In sostanza, la dispositio comporta dinamiche connettive su tutti i livelli della scala testuale, ma anche di quella macro-testuale, cioè del contesto bibliografico a cui il romanzo è destinato. È certamente il caso del Roman d’Alexandre è, felicemente descritto come «un gioco di scatole cinesi» da Gioia Paradisi [1999: 306], che ha notato come la vicenda editoriale del romanzo dia luogo ad un «vortice spiraliforme» dal quale l’opera esce continuamente aggiornata e revisionata in funzione di intenzioni peculiari e riconoscibili. In particolare, l’impianto biografico sul quale si trova ad essere imperniata la saga dell’eroe mitico da Alexandre de Paris in poi è inquadrato in un confronto genealogico con la biografia dell’antenato Florimont nel ms. fr. 729 della Bibiothèque Nationale de Paris (K), o in una prospettiva attualizzante mediante l’accostamento alle storie dell’eroe di terrasanta Goffredo di Buglione nel fr. 786 (H).

Il rapporto di interdipendenza tra la variazione del sistema testuale del romanzo e quello editoriale del libro manoscritto si dimostra ugualmente netto in tutti i grandi cicli romanzeschi del medioevo francese. Certamente nel caso dei romanzi di materia troiana e segnatamente del Roman de Troie, certo frequentemente conservato in manoscritti monografici, anche per via della impegnativa lunghezza, ma anche acquisito in compilazioni miscellanee [Jung 1996: 16-306], spesso con la funzione di «Creare una sorta di preistoria ideale per quel mondo arturiano che troverà la sua più alta consacrazione nei romanzi di Chrétien de Troyes», come ha sottolineato Arianna Punzi [1991: 98-100].

Ugualmente complessa è la tradizione testuale dei romanzi di Chretien de Troyes, che si svolge attraverso i più disparati modelli editoriali, alcuni dei quali piuttosto incongruenti rispetto alla concezione tradizionale del genere [Walters 1985]. Nel ms. fr. 1450 della Bibliothèque Nationale di Paris Erec, Perceval, Cligès, Yvain e Lancelot si trovano intercalati al Brut di Wace, dunque inquadrati in una compilazione storica di cui divengono parte integrante, menomati del prologo e della sottoscrizione che li identificano come opere indipendenti ed autoriali nel resto della tradizione [Micha 1986: 35-37, 295-315, Busby-Nixon-Stones-Walters 1993: II 31-33].

Questo rapido catalogo potrebbe proseguire ancora a lungo, se le argomentazioni proposte non illustrassero già con sufficiente evidenza il costante e generalizzato polimorfismo del romanzo medievale in volgare oitanico attraverso la sua tradizione manoscritta. Ma anche, e forse soprattutto, la complessa fenomenologia di una variabilità che investe direttamente lo statuto e la natura del genere, nonché la forma assunta dalle singole storie che vi si identificano, problematizzando l’assetto interno del racconto.

Nel groviglio di versioni discordanti l’osservatore esterno fatica spesso a ricostruire modelli interpretativi utili a delineare i rapporti tra le varie testimonianze. Fatica addirittura a stabilire i contorni effettivi della singola opera, almeno in quei casi in cui la medesima materia narrativa si presti a ricodificazioni continue e sostanziali, a combinazioni diversificate al punto da determinare assetti concorrenziali, forme alternative tutte coerenti rispetto alle rispettive fininalità espressive. Arriva a domandarsi se a monte di questa tradizione polimorfica sussista davvero un sistema logico-formale originariamente compiuto e se, comunque, sia possibile riconoscerne le tracce nelle testimonianze della sua ricezione.

La disparità testuale tra le versioni attestate è tale da mettere spesso in discussione l’effettiva pertinenza di ragionamenti intesi a ricostruire una genealogia compiuta, dunque una forma archetipica poi ‘degradata’ dalla tradizione secondo gli algoritmi di interferenza che alterno il segnale nel corso della trasmissione [Shannon 1948]. Come ha di recente illustrato Alberto Varvaro [2001], i manoscritti medievali di narrativa in volgare rappresentano il prodotto dell’attività di editori che non lavoravano necessariamente con l’intenzione di trascrivere in modo fedele il testo esemplare. Anzi, miravano molto spesso a produrre una replica dell’opera rispondente ad istanze editoriali regolate dalla committenza, dal pubblico, ma anche da competenze culturali proprie e da peculiari intenzioni espressive.

Certo è che il copista non può essere assimilato ad un automa programmato allo scopo di portare a termine una trascrizione quanto più possibile aderente all’antigrafo. I processi di elaborazione che caratterizzano il processo di riproduzione non possono essere paragonati alle interferenze che determinano l’alterazione del segnale nel processo di trasmissione di un’informazione codificata. La memoria editoriale del copista rappresenta uno spazio di articolazione del racconto costellato da intenzioni adattive variabili e disparate, tendenzialmente improntate ad un atteggiamento di personalizzazione della materia narrativa.

Ne consegue che la tradizione del romanzo si svolge attraverso snodi editoriali fortemente isotopici, che determinano continue, a volte radicali e spesso successive transizioni di stato. Tra l’occhio che legge l’esemplare e la mano che trascrive la copia non c’è soltanto l’eventuale interferenza dell’ascolto o il ricordo di una particolare esecuzione vocale del romanzo [Zumthor 1981 e 1987: 299-322]. C’è l’intenzionalità di un editore competente, capace e intenzionato ad adattare, aggiustare, migliorare il racconto rispetto alle esigenze comunicative, dunque al pubblico e alla commitenza, ma anche di personalizzarlo al fine di appropriarsene in una qualche misura.

4. Adattamento e selezione

Ricorrendo ad una concezione grammaticale del racconto, potremmo interpretare la variazione del discorso narrativo come l'effetto di diverse opzioni produttive comunque discendenti da un unico schema comune, che anche garantisce il riconoscimento di più storie come prodotti varianti della stessa matrice. Adottando un punto di vista pragmatico-induttivo, il medesimo fenomeno potrebbe essere inteso come il risultato dei meccanismi di ricombinazione degli scripts secondo processi analogici di carattere variabile in considerazione della capacità e delle competenze della memoria episodica. Seguendo l'ipotesi che la configurazione mentale del racconto corrisponda ad un network di elementi narrativi collegati in strutture reticolari da rapporti intrecciati di causa>effetto, si potrebbe piuttosto arguire che il polimorfismo del romanzo medievale sia la conseguenza di una ricezione variabile dei rapporti causali tra i singoli episodi.

Ma, a ben vedere, questi punti di vista, sviluppati sulla falsariga delle posizioni più accreditate nell'ambito della narratologia cognitiva, assumono come dato acquisito che le modalità di elaborazione del discorso narrativo riflettano necessariamente la configurazione del prodotto che ne risulta. In altre parole, danno per scontato che il racconto denoti caratteristiche di organizzazione lineare, seriale, causale compiuta e coerente perché i mecanismi di produzione o le procedure associative che lo determinano a livello cognitivo corrispondono ad istruzioni computazionali applicate ad unità simboliche di natura funzionale.

Sennonché, Cesare Segre [1974: 3-72, 70-72 in part.] notava che il passaggio da una qualunque fabula ad una struttura funzonale implica una commutazione carica di soggettività. La creazione di un modello narrativo generale comporta la creazione di un catalogo chiuso di funzioni e regole narrative. La commutazione che consente di individuare le unità minime del racconto implica ineluttabilmente un processo di astrazione basato su una modellizzazione di carattere culturale.

Questo genere di riflessioni trova riscontro nel campo della filosofia della mente, in particolar modo nelle osservazioni di J. R. Searle [1980 e 1990], che escludono ogni possibilità che la mente possa operare a qualsiasi livello come un meccanismo istruzionistico di elaborazione di informazioni secondo procedimenti inferenziali di carattere simbolico. A questa posizione filosofica di scetticismo rispetto ai modelli computazionali fanno riscontro le più recenti scoperte nel campo delle neuroscenze, a partire da L’Homme Neuronal di Jean Pierre Changeaux [1983] e The Neural Darvinism di Gerald Edelman [1987: 53-65], che escludono ogni fondamento neuro-fisiologico degli approcci istruzionistici ai processi cognitivi che implichino elaborazione simbolica.

In particolare, Edelman suggerisce un modello differente di carattere selezionistico con la teoria della selezione dei gruppi neuronali. Lo sviluppo di aggregati funzionali plastici, mobili, organizzati secondo schemi connettivi è corredato dalla «degenerazione neurale», ovvero dalla «capacità di elementi cerebrali differenti per struttura di generare la stessa funzione» corredata dalla. Il «rientro neurale» consente lo scambio reciproco in parallelo di impulsi coerenti in senso temporale tra aree diverse del sistema talamo-corticale. In questo modo la scansione cronologica dei processi cognitivi non comporta la necessità di postulare un’unità di elaborazione centrale.

Applicando questi meccanismi neurofisiologici ai processi di elaborazione memoriale del racconto, rileveremo l’implausibilità di una categorizzazione episodica improntata al riconoscimento di unità minime del racconto codificate ad un livello logico-simbolico. L’effettivo riscontro di processi evolutivi di tipo degenerativo esclude qualsiasi eventuale fondamento neurologico dell’identificazione tra strutture elementari del racconto e funzioni narrative. Allo stesso tempo, l’identificazione di connessioni rientranti scongiura la possibilità che qualsiasi fenomeno di elaborazione episodica e narrativa possa aver luogo ad un livello centrale o superiore dell’architettura cognitiva.

D’altra parte, nessuna evidenza assicura che l’articolazione testuale del racconto secondo la successione seriale di simboli grafici rifletta una qualche natura logica della sua matrice mentale. La pagina scritta, come anche la sequenza vocale delle sillabe di un testo letto o recitato a memoria, rappresenta il prodotto, dunque l'impulso in uscita dei processi di elaborazione editoriale del racconto, ma non necessariamente un modello fedele dello spazio mentale in cui essi si svolgono. Al contrario, si direbbe che la matrice bidimensionale del foglio scandito da righe e colonne, come anche il tempo della recitazione caratterizzato dalla successione fonica di unità sillabiche, configurino l’ambiente editoriale rispetto al quale il romanzo si trova a dover dimostrare attitudini adattive. Che cioè la coerenza inferenziale, l’impianto seriale e orientato del romanzo rappresentino gli effetti di un processo di selezione che agisce nel senso di determinare la forma più conveniente a questo ambiente comunicativo.

Alla configurazione logico-simbolica del racconto soggiacciono una serie di meccanismi selettivi che guidano il processo di elaborazione connettiva della materia narrativa nella memoria editoriale del copista. La tradizione manoscritta dà conto soltanto di peculiari uscite del reticolo di opzioni compresenti, ovvero delle configurazioni sopravvissute alla selezione testuale, sentite come più vantaggiose tra tutte quelle potenzialmente disponibili. Le conjointures inadatte sono marginalizzate nel corso dei processi di assemblaggio, inibite da filtri attivi su tutti i livelli della scala testuale. L’ombra delle soluzioni scartate incombe sul dato documentario nei casi di diffrazione in assenza [Contini 1986: 29-30], dove cioè la configurazione del testo tradisca l’intervento editoriale, evidenziando involontariamente l’azione dei processi adattivi e selettivi.

Certo, l’elaborazione del romanzo è soggetta a peculiari vicissitudini di carattere comunicativo: il testo dovrà essere letto, raccontato, recitato. Né il tradizionale formato grafico del libro, né tantomeno quello acustico dell'esecuzione vocale contemplano l'attivazione sincrona e parallela di due o più sviluppi divergenti della narrazione. Dunque il percorso lineare della storia sul livello fonico, vocale, acustico, quanto più su quello grafico dello scritto, della lettura lungo il filo sottile e continuo delle righe di testo, rappresentano parametri vincolanti nei termini in cui determinano l’ambiente comunicativo che regola i criteri di selezione. Al variare del contesto, dell’istanza comunicativa che guida l’elaborazione connettiva della materia narrativa, varierà tendenzialmente anche la configurazione del romanzo secondo modalità che ricalcheranno soltanto in apparenza un modello inferenziale di trasformazione simbolica.

La possibilità di riscontrare chunks, frames, scripts, o qualsiasi altro modello di regolarità su scala simbolica dipenderà dalla tendenziale stabilità degli schemi di connessione selezionati in quanto vantaggiosi, dunque più adattivi. Se l'articolazione del senso risiede nell'intensità dei collegamenti tra unità di volta in volta riconfigurabili, più la connessione sarà percepita come stringente, irrinunciabile, maggiore sarà la sua stabilità, tale da produrre su scala più grande l'emergenza di uno schema che, per quanto compatto ed elementare possa apparire, sarà comunque soggetto a variazione interna in corrispondenza di stimoli adeguati a cagione della sua plasticità costitutiva.

La tradizione manoscritta del romanzo medievale dimostra che il testo si presta ad essere smontato in laisses, branches, ambages secondo criteri variabili, soprattutto in condizioni di collatio subtilis, cioè quando il connettivo rimanga inespresso. Malgrado l'introduzione di peculiari accorgimenti grafici, la partizione del racconto si dimostra altamente variabile anche al livello «microscopico» delle unità di paragrafatura. Gli studi di Bordier, Maquère e M. Martin [1973], Porion [1989], Ruby [2000], Gasparri, Hasenor e Ruby [1993], Middleton [1993] e Busby [2002: I, 184-195] ]sulle lettres montantes consentono di farsi un'idea esemplare della straordinaria variabilità delle opzioni di paragrafatura nella tradizione manoscritta del romanzo, e più in generale della narrativa francese medievale. L'introduzione delle lettrines individua con tutta evidenza l'articolazione di partizioni narrative dotate di compattezza, coesione, unità episodica di livello microstrutturale, variabili in funzione della peculiare percezione dei margini di ogni periodo episodico da parte dei singoli copisti [Fuksas, cs.]. Considerato che soltanto in casi limite i manoscritti restituiscono una distribuzione completamente convergente delle lettrines, si potrà ricavare una norma di variazione che tradisce gli estremi di una categorizzazione polimorfica del racconto. Sarebbe a dire che il romanzo non porta inscritti nel suo codice testuale i meccanismi preposti alla sua ripartizione in sequenze episodiche dotate di rigida consistenza simbolica.

Se i meccanismi di abbreviatura o amplificatio s'appuntano su sezioni di testo variabili per estensione, forma, contenuto da una versione all’altra, tanto a livello macro che micro-strutturale, ciò dipende dal fatto che la categorizzazione del racconto secondo partizioni discrete varia in funzione di opzioni semantiche che non trovano necessariamente riscontro su un livello omogeneo di organizzazione sintattica. In altre parole, l’identificazione e la scansione degli episodi narrativi di un romanzo rappresenta un particolare caso di categorizzazione concettuale relativa e contesto-dipendente. Indagini psicologiche di carattere sperimentale hanno dimostrato che il cervello umano non crea categorie corrispondenti a sistemi chiusi, improntati a rapporti fissi e determinati tra i membri di una classe mediante l’identificazione di singole condizioni necessarie e perciò sufficienti [Smith-Medin 1981]. Piuttosto, ricorre a combinazioni disgiuntive, variabili scalari degli attributi, regolate dalle regole di associazione polimorfica degli elementi di un insieme [Dennis-Hampton 1973], oppure a modelli prototipici [Rosch 1973, 1975, 1977 e 1978, Rosch-Mervis 1975, Rosch-Mervis-Gray-Johnson-Boyes Braem 1976, Rosch-Lloyd 1978], combinando talvolta le due strategie.

In ambito narratologico questo punto di vista trova per vari aspetti riscontro nelle ricerche sulla ricezione del racconto di Umberto Eco [1979 e 1994: 30-31], che identifica negli schemi narrativi il prodotto variabile di una semiosi infinita, nel quadro dei processi di categorizzazione analogica condizionati dall’uso, dall’impiego nei vari contesti discorsivi. Sarebbe a dire che le regolarità suscettibili di essere intese come aspetti grammaticali di un’architettura narrativa superiore rappresentano in realtà l’effetto di processi classificatori imperniati sulle “somiglianze di famiglia” identificate da Wittgenstein [1953] nelle Ricerche filosofiche (§§ 66-67).

La definizione sintetica di «classe» intesa come insieme di elementi associati in ordine a condizioni singolarmente necessarie e sufficienti non si applica alle partizioni narrative del romanzo come a nessun altro oggetto o fenomeno percettivo. La categorizzazione degli episodi non è finalisticamente determinata da valori assoluti del racconto che vincolano le sue possibili organizzazioni interne. Piuttosto, risponde a finalità adattive e scaturisce da processi selettivi operanti sui circuiti associativi dell’elaborazione connettiva durante il processo di dispositio della materia narrativa.

Tra gli effetti della categorizzazione polimorfica del racconto si dovrà includere anche la frammentazione plurale, dunque la corruzione dell’unità originaria del conte d’avanture anche lamentata da Aimon de Varennes nel Florimont (vv. 1673-1684):

Si lairons des .II. rois a tant,
Si vos dirons d’un atre avant
don’t li contes est corronpus,
Que primes nen fut menteüs:
Se fut li muedres des millors
Des rois et des empereors
Que en cel tens ierent en terre
Por pris et por honor conquerre;
Mai on ne le poroit savoir.
Qui ne[l] conteroit d’oir en oir,
N’en seroit l’istoire seüe;
Por ce nen est pas conrompue

[Hilka 1932: 67].

Aimon imputa alla trasmissione orale, cioè all’ascolto (v. 1682) e alla riproduzione vocale, l’origine dei meccanismi di corruzione del racconto. Con ciò, identifica implicitamente una stessa materia diversamente trattata e articolata nelle versioni divergenti del conte, chiamando indirettamente in causa il problema della riconoscibilità della materia indipendentemente dalla forma, più o meno corrotta, che assume nelle sue diverse attualizzazioni testuali. Come s'è visto, nel prologo di Erec et Enide Chrétien de Troyes focalizza questo stesso aspetto decisivo della categorizzazione concettuale del racconto, che caratterizza la tradizione manoscritta del romanzo oitanico medievale.

Ogni nuovo racconto del racconto ha un livello di pertinenza rispetto ad un modello, ad un prototipo, basato su analogie e differenze determinate dalla capacità di rievocare la storia secondo l'ordine previsto dall’esemplare a fronte delle vicissitudini selettive che caratterizzano il suo adattamento ad un nuovo contesto, ad una nuova occasione narrativa. Fino a che punto il nuovo racconto del racconto possa essere inteso come tale e non già come un altro racconto tout-court è anche questo un fatto soggetto a categorizzazione concettuale variabile in funzione di fattori di soglia verificabili a livello sperimentale. Evidentemente le analogie non determinano un effetto di riconoscimento oltre un dato livello di variazione rispetto al racconto prototipico che funge da strumento di riscontro, modello o esemplare. A quel punto entrano in campo procedimenti intesi a discriminare elementi simili, analoghi, comuni a due storie che percepiamo come diverse.

5. Automazione tipografica

Se la categorizzazione concettuale del discorso narrativo, della sua configurazione complessiva e della sua articolazione in partizioni contigue riflette le regole di associazione polimorfica degli elementi d’un insieme, certo l’organizzazione interna di un romanzo non discenderà da una matrice grammaticale. Allo stesso modo, non potrà determinare un paradigma invariabile, nei termini in cui la segmentazione e la combinazione sequenziale delle parti si dimostreranno puntualmente soggette a categorizzazione variabile in funzione di istanze associative altrettanto variabili.

La compiutezza del sistema, così come i parametri di causalità lineare, coerenza e completezza che la garantiscono, rappresentano un’istanza adattiva della narrazione, della funzione comunicativa del racconto. L’aspirazione che guida il processo di elaborazione connettiva si concretizza in un prodotto che rappresenta uno stato peculiare del racconto, destinato a convivere con altri stati pi˜ o meno divergenti. Nemmeno il fattore modellizzante della trascrizione manoscritta potrà evitare che le successive accezioni del racconto comportino partizioni divergenti, dunque ricombinazioni plastiche dei singoli episodi e dei rapporti tra di essi.

Certo Chrétien ambisce a fissare in modo definitivo la vicenda di Cligès come quella di Erec et Enide, sennonché gli stessi procedimenti di elaborazione connettiva che egli applica a questo fine congiuntivo saranno impiegati dai futuri editori allo scopo di revisionare i suoi romanzi. Abbreviature, amplificazioni, continuazioni e prosificazioni, come anche gli inquadramenti in compilazioni più ampie secondo sistemi di ciclizzazione che attivanno le conjointures latenti al fine di combinare racconti differenti ma compatibili, rappresentano il risultato di processi d’adattamento editoriale tutt’altro che inibiti dall’esistenza di un autorevole supporto testuale del racconto.

Un filone di ricerca antropologica piuttosto corposo e autorevole ha messo in luce a più riprese l’implausibilità di modelli archetipici del racconto caratterizzati da fissità lessicale nelle culture improntate a sistemi di trasmissione orale. I contributi di Watt e Goody [1968], quindi di Goody [1977: ix e passim, 1987] e Ong [1982: 78] hanno identificato nella stabilità testuale un’istanza peculiare delle culture dotate di scrittura. R. H. Finnegan [1988: 17 e 82 in part.] ha suggerito una prospettiva piuttosto innovativa, osservando che «even in litterate cultures there are many differences of degree in the respect accorded to a fixed text» ricavando da questa osservazione che «it is possible indeed that we should regard printing rather than writing in itself as the most important factor here». Se davvero si può identificare un fattore di soglia, uno spartiacque tra l’aspirazione alla stabilità testuale e la sua effettiva realizzabilità «it is between societies with and without printing, rather than with or without writing».

Sicuramente l’aspirazione ad una forma compiuta del romanzo, del racconto in genere, presiede all’invenzione dei caratteri mobili e denota caratteristiche di universalità, nei termini in cui riflette istanze adattive universali. Un testo stabile garantisce la stabilità delle tradizioni e delle istituzioni che veicola attraverso le generazioni, dunque rappresenta un prezioso strumento di organizzazione e coesione sociale. Certo l’affermazione della tipografia risponde concretamente a questa esigenza, automatizzando il meccanismo di riproduzione testuale, dunque escludendo in via tendenziale i processi di elaborazione connettiva e di selezione adattiva implicati dall’intermediazione d’un editore umano.

L’identità tra le diverse copie stampate dalla medesima matrice consente una configurazione stabile del prodotto che concretizza le aspirazioni autoriali, e spesso anche editoriali, alla canonizzazione di una particolare versione del conte. L’«aura» del romanzo, la sua univocità autoriale e la sua compiutezza si dimostrano paradossalmente garantite dalla riproducibilità tecnica dellla medesima forma in esemplari potenzialmente infiniti, al contrario di quanto accadrà con l’immagine pittorica e la fotografia [Benjamin 1936].

Il volume monografico rilegato sancisce in misura sostanziale l'iconicity assumption [Hopper 1979 e poi Fleischman 1990], in ordine alla quale il lettore acquisisce analogicamente la sequenza narrativa delle proposizioni come icona della successione dei fatti narrati [cfr. anche Comrie 1985, Dowty 1986, Givón 1992]. Certamente milita a favore dell’aspirazione deterministica ad una forma chiusa, compiuta e improntata all’identificazione di rigide relazioni sequenziali tra i simboli che scandiscono le parti del discorso lungo il percorso lineare delle righe di testo. Probabilmente rappresenta la più limpida approssimazione materiale alla realizzazione di questa aspirazione, la sua più efficace concretizzazione storica, nei termini in cui caratterizza giuridicamente il romanzo come prodotto finito, oggetto discreto, potenzialmente autosufficiente, concluso e assertivo.

Ufficiale, affidabile, separato e indipendente, il libro dialoga con gli altri libri nel contesto di un sistema bibliotecario anch’esso lineare, dove la successione dei volumi negli scaffali rispecchia il modello di una serie aritmetica regolata da rigide procedure inferenziali. Ogni oggetto è collegato direttamente ad un solo altro che lo precede e ad uno che lo segue, con due rilevanti eccezioni: il primo e l’ultimo della serie, che determinano i confini del sistema. L’eventuale saldatura connetiva di materiali contigui, la loro ricombinazione, come anche la rielaborazione contestuale e programmatica delle loro parti è inibita dal limite fisico della copertina e della legatura. Dunque il libro a stampa è inteso, percepito e classificato come una forma unitaria, univoca, impegnata ad asserire ostensivamente e assertivamente la sua stessa identità testuale e autoriale, a negare implicitamente la legittimità di ogni forma alternativa del conte. In ordine alle istanze che rappresenta, determina un peculiare statuto identitario della sua materia, naturalizzata in una forma non già migliore, più completa delle altre possibili, quanto piuttosto ineluttabile, necessaria e, possibilmente, sufficiente.

Ma l’inerzia del racconto, la sua tendenza alla metamorfosi, è semplicemente repressa e inibita dallo statuto giuridico della stampa, limitata dai confini del libro, dalla sua configurazione fisica. È ben noto che anche il romanzo moderno, consacrato e compiuto dalla veste tipografica, si dimostra suscettibile di aggiornamenti, attualizzazioni, continuazioni o postillature, revisioni editoriali se non addirittura di riscritture complete. La trafila editoriale di molti romanzi consiste in un percorso instabile di oscillazioni anche drammatiche da un’edizione all’altra. Dunque la tradizione problematizza nei fatti l’ambizione deterministica alla configurazione di un prototipo d’opera finita, chiusa, compiuta una volta per tutte, in cui fisso è il valore dei moduli narrativi e dunque quello dei vincoli causali che li collegano l’uno all’altro.

Gli esempi estremi di romanzi mai finiti per l’incapacità di mettere fine alla ricerca di soluzioni alternative, o più volte finiti e più volte pubblicati illustrano nei fatti l’irriducibile dialettica che oppone i processi mobili della creazione e della riproduzione all’ambizione di determinare una forma compiuta, stabile, possibilmente immutabile del racconto. Confermano contestualmente l’ambizione finalistica del genere quanto la sua deriva dinamica.

La morfologia storica del romanzo ridisegnata recentemente da Pavel [2002] è il risultato di una continua oscillazione tra queste due polarità, dovuta a processi cognitivi e comunicativi che insistono su meccanismi selettivi guidati da istanze adattive. Automatizzato quanto si voglia, il processo di riproduzione del racconto è vincolato alla rielaborazione interpretativa dalla sua stessa natura comunicativa. Nessun meccanismo di codifica acustica, grafica né digitale può in linea di principio garantire l’univocità del romanzo, che rimane affidata ad un contratto giuridico tra autore, editore e pubblico in qualsiasi contesto comunicativo.

6. Impegno cognitivo e funzione evolutiva

Se il limite superiore del romanzo è rappresentato dalla realtà che ambisce a rappresentare, quello inferiore è segnato dalla plasticità costitutiva dei meccanismi di elaborazione connettiva, ovvero dei meccanismi associativi da cui scaturisce. Lo statuto semantico dello spazio delimitato da questi due confini è regolato secondo Greimas [1983; tr. it. 1985: 101-129] da un contratto di veridizione improntato ad una irriducibile dinamica di scambio, sovrapposizione, integrazione di «credere» e «sapere». Misurando l’estensione dei mondi di invenzione, Thomas Pavel ha giustamente sottolineato l’inconsistenza di un modello unico di cospicuità del romanzo. o dell’opera letteraria in genere, rispetto al mondo reale per come convenzionalmente viene rappresentato [Pavel 1986]. Eric Auerbach [1946] ha delineato le implicazioni stilistiche di questo contratto di veridizione, identificando le sue ragioni storiche e la sua perdurante rielaborazione attualizzante nella selezione strategica di un registro linguistico: il sermo humilis. Quanto all’ordine, alla dispositio, concluderemo che la morfologia del romanzo deve il suo assetto seriale, orientato a meccanismi selettivi che rispondono a peculiari sollecitazioni adattive. Soprattutto alla necessaria sincronizzazione di spazio, tempo e causalità logica, definendo cronòtopi compiuti [Bachtin 1937-1938/1975, Segre 1981], ma al contempo variabili in funzione di nuove vicissitudini «ambientali».

Proprio nella «ricerca del cronotopo» Cesare Segre [1984: 75] identificava «l’impegno cognitivo del romanzo», ma anche la sua ragione pedagogica, non già in senso morale, quanto piuttosto etologico, ovvero etico in accezione etimologica. Osservava che «tutti i romanzi, e non solo medievali, costituiscono una presa di possesso del mondo, oltre che della società». In particolare, si direbbe che rappresentino un modello di sincronizzazione causale delle estensioni spaziali e temporali in funzione di una soggettività identitaria, modellata sull’esempio del protagonista [Bachtin 1979; tr. it. 1988: 5-194], dunque sull’identificazione dell’intelocutore con le istanze attoriali e attanziali del racconto [Greimas 1983/1985: 45-63], attraverso percorsi estensivi di rappresentazione mimetica dell’esperienza estetica.

Il romanzo insegna le transizioni del futuro in presente, del presente in passato, ma anche la possibilità di ritorni circolari di quello stesso passato suscettibile di ri-presentificazione nello spazio dell’attualità. Dunque insegna l’attesa, l’importanza della memoria di eventi passati, le strategie di previsione di eventi futuri, il calcolo dell’imprevedibile. In questo senso, fonda la concezione del tempo tipica dell’età adulta, dunque una temporalità e una causalità di livello superiore rispetto ai sei identificati da Piaget [1967] come tipici della costruzione del reale nell’'infanzia, cioè da 0 a 12 anni. Non a caso il romanzo si specializza come lettura adolescenziale, non a caso si afferma il genere del Bildungsroman [Bachtin 1979; tr. it.: 1988: 194-244, Moretti 1987; tr. it. 1999], non a caso la paideìa della moderna società borghese celebra il romanzo come cardine della formazione, come già quella medievale della società cavalleresca [Köhler 1956: 66-88 e 1976].

Come ha notato Michelle Freeman [1979: 168-174, 171-172 in part.], in un passo del prologo del Cligès significativamente improntato all’ordo artificialis, Chrétien dichiara programmaticamente che racconterà la storia seguendo l'ordine naturale degli eventi, dunque anteponendo a quella dell'eroe la vicenda matrimoniale paterna. Il corredo dell’antecedente, senz’altro caricato di valenza esemplare, dunque inteso come termine di paragone, introduce la vicenda biografica del protagonista unificando su un solo binario l’ordine genealogico, quello cronologico, quello causale, ma anche quello gegrafico, subordinato alle istanze ideologiche della translatio.

D’altra parte, l’avanture chiama etimologicamente in causa la ricerca delle eventualità ad venturas, che dunque sopraggiungeranno nel futuro in ordine ad una queste, ovvero all’attraversamento di uno spazio possibilmente incognito [Köhler 1976: 328-333]. Inquadrata da questo punto di vista, rappresenta una tappa necessaria all’acquisizione di una concezione adulta della durata, possibilmente coronata dal matrimonio, dunque dal compimento della parabola filogenetica, ideale happy ending al quale potrà eventualmente seguire soltanto il conseguimento di finalità superiori di carattere sociale e morale. Per rimanere al caso di Erec et Enide di Chrétien de Troyes, la Freeman [1979: 65-73, 68-70 in part.] nota appunto come il riferimento programmatico alla mout bele conjointure connoti certamente un impegno retorico, ma, contestualmente e specularmente, denoti anche un’opzione tematica, con riferimento all’unione matrimoniale tra i due protagonisti [cfr. anche Tobler-Lommatzsch 1938: II 1054].

La parola conter, già impiegata nel senso di «raccontare» nel XIII secolo, rinvia etimologicamente a COMPUTARE, così come conte rimanda a COMPUTUS [Tobler-Lommatzsch 1938: II 752-757, 756-757 in part.; von Wartburg 1946: II 992-996]. L’associazione metaforica, poi lessicalizzata, tradisce un’imparentamento concettuale di matrice culturale tra l'atto del «raccontare» e quello del «contare», dunque la necessità di «enumerare» gli eventi di una storia secondo il modello prototipico di una serie numerica, scandita da intervalli costanti. Certo, se la forma «naturale» del racconto fosse davvero quella logico-causale, se la memoria episodica funzionasse come un sistema combinatorio di unità simboliche, l'etimologia inquadrerebbe correttamente la matrice dei processi di organizzazione del discorso narrativo, registrerebbe in una certa misura la loro forma mentale.

In realtà, si limita ad esplicitare una peculiare concezione del racconto, modelata sulla morfologia del prodotto di un processo adattivo, soggetto a peculiari meccanismi di selezione. Le associazioni episodiche e narrative determinano percorsi scanditi da salti, circoli, anticipazioni prolettiche, digressioni, ritorni, caratterizzati da meccanismi analogici di tipo variabile, non necessariamente ordinati in una sequenza orientata di intervalli regolari. Se il conte è assimilabile a un computus, al punto da venir chiamato allo stesso modo nelle principali lingue letterarie romanze, è perché la sua forma convenzionale, la più efficace da un punto di vista evolutivo, è appunto quella logico-causale.

Dunque le concezioni istruzionistiche del racconto improntate a modelli grammaticali, o comunque all'idea che la sequenza cronologica o causale del racconto, come quella logica del discorso, riflettano una configurazione «naturale», ovvero un corrispondente ordine associativo di tipo mentale, possono anche essere intese come il perdurante effetto di un luogo comune antico come la retorica classica di matrice aristotelica. È proprio la straordinaria efficienza del romanzo rispetto alle istanze primarie di carattere evolutivo, collegate all’apprendimento e alla strutturazione di una concezione adulta del tempo e della causalità, ha comportato l'errore prospettico, dando luogo ad un classico effetto collaterale di «naturalizzazione» della forma. La morfologia dei prodotti artificiali di un dispositivo selezionistico acquisito finisce per essere recepita come una proprietà intrinseca del processo associativo da cui scaturisce.

D’altra parte, proprio in considerazione della sua funzione evolutiva, pedagogica, il romanzo occupa ancora una posizione centrale nel sistema dei generi espressivi della cultura occidentale, e non più solo di quella, come i volumi dedicati al romanzo da Einaudi per le cure di Franco Moretti vanno progressivamente illustrando con stringente evidenza. Una posizione talmente centrale da illuderci che i processi di associazione memoriale del discorso narrativo funzionino necessariamente secondo le sue leggi, secondo la sua logica, secondo la sua continua ricerca di cause che giustifichino effetti in ordine a pianificazioni e finalità umane o provvidenziali. Talmente centrale da illuderci, a volte, del fatto che la realtà stessa, il suo referente esterno, funzioni secondo le stesse leggi.

Naturalmente, le cose non stanno così. In bilico tra mente e natura, tra l’esperienza estetica del mondo e la sua continua rielaborazione cognitiva in ordine alla perdurante ed inevitabile tematizzazione del rapporto tra uomo e natura, il romanzo è una tecnologia approntata dall’ingegno umano. Un prodotto della mente, prima ancora che della voce, della mano o della tipografia, rivelatosi straordinariamente efficace al fine di trasmettere e apprendere un sistema di temporalità e causalità complessa, di pertinenze variabili tra fatti distribuiti lungo una serie estensiva, nascosti o persi dietro o dentro altri fatti, spesso difficili da identificare in quanto tali per via della plasticità del sistema categoriale che li codifica.

Trattando dell'ipotesi secondo la quale il racconto nascerebbe come mito nell'alto neolitico, pur non prendendo posizione, Niles osserva che il suo lavoro giunge ad una netta conclusione, che cioè la narrativa svolse e ancora svolge un ruolo cruciale nell'evoluzione umana. Nei limiti del possibile, gli argomenti presentati in questo intervento vorrebbero contribuire a spiegare il perché.


Avvertenze

Una versione parziale di questo intervento è stata presentata nell’ambito del convegno su «Soggetti e territori del romanzo», in occasione della pubblicazione dell’opera Il romanzo, Einaudi Editore, a c. di Franco Moretti: I. La cultura del romanzo; II. Le forme, Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma «La Sapienza», 24 Maggio 2002. Il testo di questo intervento si trova pubblicato in Selezionismo e conjointure, in Dal Romanzo alle reti. Atti del Convegno «Soggetti e territori del romanzo» Università di Roma «La Sapienza». Facoltà di Scienze della Comunicazione, 23-24 maggio 2002, a c. di A. Abruzzese e I. Pezzini, Torino, Testo & Immagine, 2004, pp. 152-184.


Bibliografia


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